mercoledì 18 novembre 2015

Sul voto utile, Abate, e il ruolo della socialdemocrazia.

Quanto in là, oltre ai nostri ideali, bisogna spingersi, nel nome del "voto utile"?
Ho visto in questi giorni esponenti "socialisti" contenti dell'elezione di Lombardi e, specialmente, di Abate.

Io ho riflettuto a lungo prima di questo ballottaggio, ho crociato i miei nomi, ho chiuso la busta del voto per corrispondenza, ma, alla fine, non me la sono sentita di votare, perché nessuno dei candidati meritava un voto, nessuno.
Tantissimi, a sinistra, hanno invece votato l'esponente PS e....quello PLR, e non uno qualsiasi, quello del Fox Town, quello che a Berna non ha mai fatto gli interessi né dei lavoratori, né dei ticinesi.
Fino a dove si deve cadere per "evitare il peggio"? 
La mossa è logica, si vota, storcendo il naso (speriamo), chi non piace, per evitare l'elezione di chi piace ancora meno, cioè il rappresentante di Lega-UDC. 
OK.

I comunisti sono campioni di pragmatismo, disposti a volte a sporcarsi le mani se questo potrebbe servire ad un miglioramento delle condizioni dei settori più sensibili della società. 
Ma fino a questo punto? Votare Abate, davvero? 
Per me, voi che lo avete eletto, dovreste solo vergognarvi. Io ho il cuore in pace, non sarò complice delle sue scellerate politiche borghesi. 
Sarebbe stato peggio Ghiggia? Il "leghista razzista"? 
Forse, ma tra due sciacalli preferisco non sceglierne nessuno, potendo dire così con orgoglio: "io non sono complice". 

La nostra democrazia liberale sempre più somiglia alla sua degenerazione "made in USA". 
Hai il diritto di scegliere, ma di scegliere tra il letame e la merda, dunque, a questo punto, chi mi obbliga a dover scegliere per forza? 
Spero che sarete fieri del vostro sputo di inchiostro sulla scheda, quando i nostri rappresentati nella camera alta calpesteranno la nostra dignità nel nome del capitale. Anzi, spero che non ne sarete fieri affatto, e che magari, in questi tempi di cambi radicali in seno alla società occidentale, pure voi socialdemocratici ricomincerete a fare il vostro lavoro storico, per cambiare il paese, per risollevare le sorti dei salariati, per fermare la guerra, senza complicità, senza interessi, senza ipocrisie. 

Alla prossima che farete? L'anti-leghismo elevato ad ideologia non porta a nulla, l'Italia insegna, caduto Berlusconi, sono saliti gli anti-berlusconiani, facendo ancora peggio, per quanto fosse possibile. 
Se si perde è perché la proposta non è appetibile, si è sempre "contro", e mai "pro", perché si scende ad assurdi compromessi per paura di perdere qualche "cadrega", e perché, a volte, si vuole difendere l'indifendibile, nel nome dei "diritti umani" ormai strumentalizzati dai poteri forti.

Basta vendersi per evitare il peggio, bisogna essere coerenti e costruire con pazienza una reale alternativa, dove c'è spazio per tutti i "volti puliti", per tutta la gente onesta, per tutti i progressisti stufi dello sciacallaggio del sistema capitalista.



Amedeo Sartorio, consigliere comunale per il Partito Comunista a Brione sopra Minusio.



#LaSinistraAssente #IoNonHoVotato

domenica 15 novembre 2015

Oriana Fallaci, una criminale sionista.


Dopo i tragici avvenimenti di Parigi, una buona fetta di popolazione italofona, arringata da squallidi personaggi come Matteo Salvini, "riesuma" la Fallaci dicendo che aveva ragione e che tutti i bambini dovrebbero leggerne i libri a scuola.
La Fallaci, che portava avanti la tesi dello scontro tra civiltà, dall'alto di un'esasperante ed evidente islamofobia, rischia di fare ancor più danni "post-mortem" che nella sua lunga vita.
Vi riporto l'estratto di una sua intervista in cui spiega perché si dichiara sionista. Sionismo, ideologia e progetto di chiaro stampo coloniale e razzista.




Non voglio spiegare che significa ”sionismo”, perche’ penso che il lettore colto e abbastanza informato lo sappia. Tutti parlano del sionismo e quasi sempre male pero’ la maggioranza non sa’ il suo significato e questo e’ molto triste. Sono sionista non perche’ ami gli ebrei ( e li amo) ne’ perche’ ho sangue ebreo ( non si sa mai…) ne’ per essere ”spirito di contraddizione” e lo sono… Non sono sionista perche’ sono multimiliardaria ne’ potente che ovviamente non lo sono..come molti ebrei non lo sono. non sono sionista perche’ faccio parte di misteriose organizzazioni internazionali che nessuno conosce ma di cui molti parlano…non sono sionista perche’ sono massone che non lo sono e non sionista perche’ non sono cristiana perche’ ho l’onore di esserlo.
In questa nostra societa’ tanto manipolata dai mezzi di comunicazione e tanto latinamente ( curioso termine no?) usata per determinati ”centri sociali” che siano religiosi, etnici o politici,con inconfessabili e perverse intenzioni di riuscire ad eliminare il popolo da Israele nel migliore dei casi; che nel peggiore e per niente occulto, quello che si pretende direttamente e’ lo sterminio ( nel linguaggio genocida si parla di ”gettarli al mare”) di otto milioni di persone che vivono nel territorio piu’ singolare e controverso di quelli che sono sulla faccia del nostro pianeta terra. sono solo un paio di milioni in piu’ di quelli che stermino’ Hitler…
Uno e’ basso perche’ non e’ alto o viceversa e io sono sionista perche’ non sono antisionista e in questo non ci sono ambiguita’. O si e’ sionista o non lo si e’.

In definitiva sono sionista perche’ respiro, perche’ penso,perche’ vedo, perche’ esisto,perche’ so’….Sono sionista perche’ conosco Israele e la sua gente e gli arabi che vivono li’ e godono degli stessi diritti degli ebrei e temono gli arabi dall’altra parte e tacciono e sono colpevoli perche’ tacciono…pero’ quando parli con loro nell’intimita’ della loro casa manifestano la loro gioia per vivere, lavorare e educare i loro figli in liberta’ piena, liberta’ anche di essere atei e le donne di essere libere in citta’ come Tel Aviv, jaffa o Gerusalemme.
Sono sionista perche’ non mi piace che sgozzino la gente, che lapidino le donne o che uomini adulti si sposino con bambine.
Sono sionista perche’ amo la cultura e ringrazio ai tanti scienziati, intellettuali, medici, letterati, musicisti, architetti,ingegneri, matematici, e fisici ebrei che in proporzione maggiore rispetto al resto della terra hanno dato di piu’ e nonostante siano stati i piu’ oppressi…
e per ultimo sono sionista perche’ sono donna, europea e occidentale. Perche’ adoro la mia maniera di vivere e detesto che mi si voglia imporre qualcosa. Perche’ amo la liberta’ sopra ogni cosa. perche’ rispetto le donne, perche’ bevo quello che voglio e mi piace il prosciutto e perche’ ognuno col suo culo fa quello che vuole signori…e signore! Of course!
Conclusione: sono sionista perche’ sono egoista e se muore Israele, nostro migliore e coraggioso alleato, dietro Israele moriremo anche noi…..

Oriana Fallaci.

Dall’intervista originale in spagnolo: icees.org.booriginale: http://www.amicidisraele.org/2014/11/perche-sono-sionista-di-oriana-fallaci/

mercoledì 28 ottobre 2015

Sionismo, il vero alleato di Hitler, di Alberto García Watson


Sionismo, il vero alleato di Hitler, di Alberto García Watson

Le dichiarazioni incendiarie del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, scagionano Hitler dal genocidio.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu forse ignora che sotto la legislazione europea relativa il revisionismo storico in materia di olocauto ebraico, le sue dichiarazioni incendiarie, scagionando Hitler dal genocidio, potrebbero costituire un delitto allineandosi chiaramente con quelle dei revisionisti più radicali che, come lui, pretendono che Hitler voleva soltanto espellere gli ebrei dall'Europa centrale.

Le sue assurde dichiarazioni che accusano il Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini di essere il reale responsabile intellettuale dell'olocausto ebraico, che incitò (secondo B.N.) Adolf Hitler all'adozione della "soluzione finale" contro gli ebrei, sono assolutamente false e totalmente prive di rigore storico.

Nell'incontro avuto tra il chierico palestinese e Hitler il 28 novembre del 1941 a Berlino, è chiaro l'interesse del Führer, nel suo compromesso per combattere il giudaismo mondiale, mentre il Mufti al-Husseini esprimeva solo preoccupazione per gli interessi arabi in generale e quelli dei palestinesi in particolare.
In nessun momento al-Husseini (come si denota dalla trascrizione officiale dell'incontro in questione), fa allusione al "bruciare gli ebrei" come ha faziosamente suggerito il primo ministro israeliano.

La versione sballata del revisionista Netanyahu è già stata smentita da storici e politici israeliani come palestinesi, alcuni dei quali sono arrivati a dire che tali incongruenze non solo vogliono banalizzare l'olocausto, ma avrebbero come obbiettivo quello di scaldare ancor più l'ambiente di scontro tra la parte più radicale della società ebraica, e la nascente sollevazione popolare palestinese.

Ciononostante, se ci avvaliamo di un assoluto rigore storico, scopriremo che le relazioni tra il terzo Reich ed il sionismo nella Germania hitleriana, lontano dal preteso clima di persecuzione, erano intime.

Dalla salita al potere di Hitler nel 1933, il nazionalsocialismo appoggiò il sionismo in maniera significativa nel suo progetto di immigrazione ebraica in Palestina. Sulla base della confluenza ideologica ultranazionalista, e di un'evidente intesa sulla prospettiva etnico/identitaria, il nazismo ed il sionismo rafforzarono le loro posizioni affini. Il sionismo sperimentò un'importante progressione durate il nazismo. Pubblicazioni come il "Jüdische Rundschau" (periodico della Federazione Sionista Tedesca) incrementarono le vendite, e la celebrazione nel 1936 a Berlino della Convenzione Sionista, da un'idea della vita politica dei sionisti tedeschi ai tempi del terzo Reich.

Le SS erano particolarmente entusiaste dell'appoggio dato al sionismo.
Nel 1934 una pubblicazione interna alle SS raccomandava ai suoi membri un appoggio incondizionato e attivo al sionismo, tanto da parte del governo, che dal partito nazista, visto come la miglior soluzione per incitare all'immigrazione in Palestina gli ebrei tedeschi.

Leopold von Mildenstein, un importante ufficiale SS, e Kurt Tuchler, rappresentante della Federazione Sionista Tedesca, realizzarono insieme un viaggio di sei mesi in Palestina per verificare lo sviluppo e l'espansione degli insediamenti in territorio palestinese. Al suo ritorno von Mildenstein pubblicò, alla fine del 1934, una serie di dodici articoli per l'importante quotidiano berlinese "Der Angriff" , dove esprimeva il suo apprezzamento per gli straordinari traguardi raggiunti dai coloni sionisti in Palestina. Il quotidiano berlinese emesse una medaglia commemorativa della visita che esibiva su una faccia la croce uncinata e sull'altra la stella di Davide, come dimostrazione degli stretti legami tra sionismo e nazismo.

I servizi di sicurezza di Himmler (capo di SS e Gestapo) collaborarono con la Haganah (squadroni terroristi paramilitari ebraici in Palestina) nel dirigere l'emigrazione ebraica in Palestina, così come nella consegna di armamenti tedeschi ai coloni ebrei da usare negli scontri con la popolazione araba palestinese.

nel gennaio del 1941 un'altra banda criminale ebraica, il Lehi, o Stern Gang (scissione di un altro gruppo paramilitare sionista, "Irgun Zvai Leumi"), comandata da Avraham Stern, lanciò la proposta formale di un'alleanza politico-militare con la Germania nazista per mezzo di Otto Werner von Hentig, consule tedesco a Beirut.

Quello che risulta certamente paradossale è che questi gruppi terroristici ebraici parteciparono attivamente alla guerra dal lato dei nazisti, quando erano già note le deportazioni di massa di ebrei dall'Europa centrale, e che lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti era già cominciato con massicci massacri in Lituania. La spiegazione starebbe nel fatto che il movimento sionista è laico/riformista (il padre del sionismo, Theodor Herlz era ateo), mentre la maggioranza delle vittime dell'olocausto erano ebrei ortodossi haredim, contrari al sionismo e alla creazione dello Stato di Israele, dunque in molti si rifiutarono di partecipare al progetto di emigrazione massiva nazi-sionista. Oggi la comunità ebraica haredim è tra le più odiate in Israele.

Però quello che sì, si può addossare al Netanyahu storico, è il fatto di non conoscere nemmeno la storia del partito politico in cui milita, il Likud, di cui Albert Einstein, illustre ebreo, arrivò a dire in una lettera: "...un partito politico con enormi somiglianze in quanto a organizzazione, metodo, filosofia politica e radicamento sociale, al partito nazista e a quello fascista".

Il Likud, una formazione fondata su consiglio di uno dei padri fondatori dell'entità sionista, Zeev Jabotinsky, non lascia indifferente nessuno. "Hitler Jabotinsky", come lo chiamava Ben Gurion, fu l'istigatore del sionismo revisionista dal quale naque il gruppo terrorista ebraico di estrema destra Irgun Zvai Leumi, tristemente celebre per i suoi innumerevoli massacri compiuti ai danni della popolazione palestinese negli anni '40.



Jabotinsky era un ammiratore della Germania nazista, ma soprattutto dell'Italia fascista, Mussolini arrivò a dire di lui nel 1935: "...per l'esito del sionismo, avete bisogno di uno Stato ebraico, con una bandiera ebraica e una lingua ebraica. La persona che capisce davvero ciò è il vostro fascista, Jabotinsky".

Benzion Netanyahu, padre biologico e mentore politico di Benjamin Netanyahu, fu, negli anni '30, segretario personale di Zeev Jabotinsky. Benzion Netanyahu pronunciò nel 1998 un discorso commemorativo per il 50esimo anniversario della nascita di Israele, dove elogiò la figura di Abba Achimier, uno stretto collaboratore di Jatodinsky che abbracciò il nazionalsocialismo di Hitler "per salvare la germania dalla guerra civile e dalla dittatura socvietica", e non ebbe nessun problema nel descrivere questo personaggio come il suo modello politico da imitare.

La parola olocausto è un termine biblico che significa "sacrificio", perché dunque si utilizza il termine "sacrificio" per denominare un genocidio? La risposta, secondo alcuni, sta nel fatto che il movimento sionista internazionale avrebbe sacrificato gli ebrei europei nell'olocausto per compiere scrupolosamente la sua sinistra agenda geopolitica, creare senso di colpa e guadagnare sostegno dalla finazainternazionale, con l'obbiettivo di legittimare un "focolare nazionale ebraico" in terra araba, un progetto irrealizabile senza le radici vittimestiche dell'olocausto.

Netanyahu tutto ciò lo sa bene, per questo il suo recente tentativo di riscrivere una storia dove il suo "entourage" più vicino giocò una carta tanto vergognosa, mira ad aprire il vaso di pandora delle miserie sioniste.


Traduzione di Amedeo Sartorio

originale: http://hispantv.com/newsdetail/Sionismo/72725/sionismo-netanyahu-hitler-holocausto-palestina

lunedì 5 ottobre 2015

La Russia non è una potenza imperialista, come Marx, Lenin e l’analisi decolonialista lo dimostrano.

di Sukant Chandan, Sons of Malcolm, 1 ottobre 201511Riferimento alla Siria e approfondimento sul perché Russia (e Cina, India, Brasile, Iran, ecc) non sono “imperialisti né sub-imperiaisti”.
Con la Russia invitata dal governo siriano ad intensificare l’aiuto per contrastare e sconfiggere gli squadroni della morte di Gran Bretagna, Francia e USA nel Paese, nella relativa impennata nella difesa della Siria che resiste all’attacco imperialista globale combinata da oltre 4 anni, sentiamo riecheggiare le principali potenze della NATO nell’indicare la Russia quale Paese ‘imperialista’, o di “militarismo russo”, per citare un noto capo del momento della sinistra inglese. Nulla del genere. Qui cerco di dimostrare perché non lo sia, e perché la sinistra occidentale, in realtà imperialista e neocoloniale, cerca di affermarlo: “Colonialismo, imperi e ‘imperialismo’ sono fenomeni antichi, la cui natura comune comprende l’acquisizione di terre oltre a quella originaria, attraverso le violenze, ma il grado di violenza e di statualità dipende da caso a caso, e varia in funzione dell’impero e del momento storico. Quasi ogni regione del mondo ha visto imperi per millenni. Ciò non lo giustifica affatto, è solo un dato di fatto. Sul piano etico, mi oppongo a tutti gli imperi e colonialismi, alcuno di essi dovrebbe essere nostro modello oggi, e storicamente soprattutto nel mondo moderno, molti dei nostri popoli che hanno superato l’eredità di questi imperi hanno fatto assai peggio con l’esperienza coloniale tendendo (e continuando) a sostenerlo e celebrarlo, distorcendolo quale riflesso del colonialismo europeo, e quindi incoraggiandoci a interiorizzarlo e proiettarlo sugli altri. La genesi di ciò che abbiamo capito del moderno imperialismo, ovvero lo sviluppo dell’Europa occidentale e del Nordamericana basato sul moderno capitalismo/imperialismo, pur condividendo caratteristiche comuni con gli antichi imperi, come l’acquisizione dei territori oltre la ‘casa’ o ‘patria’ ‘originarie’, le similitudini finiscono qui. Il capitalismo europeo moderno ha molte caratteristiche specifiche, uniche di per sé e che non possono risalire agli antichi imperi né possono essere attribuite a Paesi come la Russia. Ciò è stato ben analizzato da Marx ed Engels, sviluppato da Lenin e Mao ed altri, e anche se va aggiunta la teoria decoloniale sulla ‘colonialità’, esistente in gran parte già nelle teorie di Marx, Lenin e Mao, anche se non bastava, e allo stesso modo, il decolonialismo ha carenze in alcuni casi, ma non sempre (ad esempio molti bravi decolonialisti nelle nostre attuali lotte globali del Sud sono alleati a Morales, Chavez, Maduro, Castro, Lula/Dilma, ZANUPF, ANC e molti altri) nelle lotte realmente vitali e radicate nella realtà delle resistenza e liberazione dall’oppressione imperialista.
lenin_progress_poster_by_party9999999-d3459161Lenin definisce cinque caratteristiche dell’imperialismo moderno, e per ‘imperialismo’ intende, come anche io quando uso questo termine, i moderni grandi Paesi capitalisti-colonialisti. Passerò su questi punto per punto e dopo ogni punto sottolineerò come ciò non sia rilevante per la Russia e gli altri Paesi di cui sopra:
1) Concentrazione di produzione e capitale, creazione di monopoli che svolgono un ruolo decisivo nella vita economica“;
– Lo Stato in Russia, continuazione dell’élite della sicurezza (KGB) e militare (Armata Rossa) del periodo sovietico (1917-1991) è in ultima analisi responsabile della vita economica e politica del Paese, non i monopoli. Questa élite è intrisa di una concezione del mondo e politica ostile all’imperialismo.
2) Fusione del capitale bancario con quello industriale, e creazione, su tale base del “capitale finanziario” e di un'”oligarchia finanziaria“;
– Vi è una limitata oligarchia finanziaria, ma non come oligarchia con qualche ruolo di primo piano nella vita russa; no, sono le classi della sicurezza e militari che guidano la Russia. L’ascesa di Putin per l’élite e la leadership russa segnò la fine dell’imperialismo occidentale che imponeva il saccheggio dei beni dello Stato e l’avvento al potere di una élite economica totalmente anti-russa che stava spezzando il Paese. Putin le ha imposto il terrore politico e l’epurazione.
3) L’esportazione di capitale distinta dall’esportazione di materie prime, acquista un’importanza eccezionale“;
– Una premessa fondamentale della mia analisi generale è che la Russia non ha ‘capitale’, nel senso che non esiste il ‘capitale’ dell’Europa occidentale, Nord America (e Australia), avendo natura completamente diversa dalla concettualizzazione mondiale del colonialismo moderno, altro a breve.
4) Formazione di associazioni internazionali monopoliste capitalistiche che si spartiscono il mondo“.
– La Russia non è e non è mai stata assieme a NATO ed imperialisti, dove gli imperialisti non accettano affatto il ruolo della Russia sulla scena mondiale; piuttosto gli imperialisti hanno sempre seguito e continuano a sviluppare una politica di guerra aperta contro la Russia, circondandola militarmente e cercando di degradarne gli alleati mondiali. Tale politica non funziona per nulla!
5) Completa divisione territoriale del mondo tra le più grandi potenze capitaliste“.
– La Russia resiste in partnership con il Sud del mondo a tale divisione del mondo da parte delle potenze imperialiste. Alcuni esempi sono il sostegno politico e militare della Russia alle nazioni ‘latino’-americane come Venezuela e Cuba. I russi compivano un’esercitazione navale militare congiunta con i venezuelani nel 2007 nelle acque dei Caraibi, una grande vittoria storica del movimento antimperialista mondiale, tanto è vero che i media imperialisti non volevano farlo sapere mantenendo uno stretto silenzio. Il Sud mondiale è assai contento ed in generale felice del sostegno della Russia.
Lenin ha anche sviluppato il concetto delle tre contraddizioni dell’imperialismo:
1. Tra lavoro e capitale (imperialisti capitalisti globali/imperialisti/neo-colonialisti globalisti)
– Nella ‘guerra di classe globale’, la Russia si trova in prima linea nella difesa del primo interesse della classe operaia globale a non essere distrutta dall’imperialismo. Analizzo questo più profondamente qui.
2, Tra gli stessi Paesi imperialisti
– La Russia come ogni altro Paese del Sud del mondo cerca di sfruttare le tensioni tra gli imperialisti a proprio vantaggio, e la Russia così come la Cina lo fa in genere molto bene.
3. Tra nazioni imperialiste/che opprimono e nazioni oppresse o ciò che alcuni chiamano ‘Sud Globale’ o ‘Terzo Mondo’
– In questa contraddizione, la Russia è chiaramente dalla parte delle “nazioni oppresse’. Tuttavia, questo non basta ad esplorare e identificare la natura dell’imperialismo, e se la Russia vi si adatti. Perché l’imperialismo è molto di più tali cinque caratteristiche e tre contraddizioni. Quindi, di cosa si tratta? Ciò che rende l’imperialismo unico e completamente diverso dagli antichi imperi, colonialismi, ecc., è la concezione del mondo dell’imperialismo moderno e il modo con cui ciò giustifica le sue operazioni uniche e terribili, terrificanti e disumanizzanti, e principi ed etica e concezione del mondo disumanizzanti. Il Capitale di Marx è, in generale, la migliore analisi della fisica del capitalismo-imperialismo, ma in un relativamente breve paragrafo della sua opera ultima, il Capitale, riassume l’unicità di tale oppressione infame: “La scoperta di oro e argento in America, l’estirpazione, riduzione in schiavitù e tumulazione nelle miniere della popolazione indigena, l’inizio della conquista e del saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in un labirinto per la caccia commerciale dei neri, segnano l’alba rosea dell’era della produzione capitalistica. Questo idilliaco procedere è il culmine dell’accumulazione primitiva“. Qui vediamo quanto irrilevanti siano le etichette ‘imperialiste’ su Russia, Cina e altri. Il capitalismo esiste in Russia e in Cina e francamente esiste in varia misura in tutti i Paesi del mondo. Tuttavia, è solo l’esperienza coloniale-capitalista-imperialista europea che vediamo che tale sistema si basa su ciò che Marx descriveva: sterminio di intere popolazioni indigene; riduzione in schiavitù di masse trattate come bestiame (‘beni mobili’ della schiavitù) dei popoli africani; svuotamento di intere regioni del mondo della loro ricchezza. Marx è schietto: QUESTA è l’alba di tale sistema. In altri ambiti, Engels afferma che l’oppressione delle donne e delle ragazze è anche un aspetto fondamentale di tale sistema, con lo sterminio di massa di donne e ragazze nel Medioevo parte integrante del processo di ‘accumulazione primitiva’ del sistema imperialista, lo sterminio delle donne nel Medioevo era parte integrante dell’oppressione dei contadini e del furto delle terre comuni e della terra coltivata da loro. Nessun altro potere prima o dopo ha computo tale combinazione di atti, e questo è ciò che rende l’imperialismo estraneo alla Russia, in realtà la Russia guida il sostegno all’umanità nel respingere tali oppressioni imperialiste.
z_wld350Tuttavia, il quadro è ancora incompleto. Ed è qui che la teoria decoloniale è importante per sposare l’approccio antimperialista, e allo stesso modo approccio e analisi antimperialista vanno sposate a teoria e analisi decoloniale. Senza questo accoppiamento, entrambi s’indeboliscono e corrono il pericolo di negare se stessi. Perché l’impatto dell’imperialismo/ moderno colonialismo sui rapporti tra esseri umani e tra esseri umani e mondo e universo, su questo tema universale, conduce anche al genocidio mentale dei sistemi di credenze non/pre-coloniali. Ciò non vuol dire che i sistemi di credenze pre-coloniali fossero essenzialmente buoni e liberatori, anche possono essere opprimenti va ammesso che tutti i sistemi pre-coloniali non sono comparabili all’oppressione concettuale e fisica dell’imperialismo moderno. La teoria decoloniale ci aiuta ad evitare i contagi coloniali, come ad esempio il riciclaggio dei suprematisti coloniali europei in vesti bianche e nere, come appare nelle immagini speculari della supremazia coloniale musulmana (Fratelli musulmani e formazioni di al-Qaida/SIIL), indù (Bjp e RSS), Sikh (Khalistan, ecc), e in altre vesti. Anche nelle esperienze socialiste e nei processi antimperialisti è importante capire che non si può desiderare il contagio coloniale dei propri popoli, Paesi e lotte di liberazione, ma che solo attraverso il ‘lavoro attivo’ nelle realtà della lotte di liberazione, resistenza e difesa dei nostri popoli possiamo applicare un progetto di liberazione olistica.
In conclusione: se si ha mente acuta e si osserva la natura del moderno colonialismo/capitalismo/-imperialismo ‘europeo’/ ‘occidentale’/’di democrazia occidentale’ si vede chiaramente come inapplicabile sia verso Russia e Cina, ecc. Purtroppo la sinistra imperialista/occidentale e occidentalizzata resta sempre alla coda degli imperialisti, quasi sempre riecheggiando concetti e realtà politiche dell’oppressione imperialista nel mondo. Considerano la Russia pari all’imperialismo, di conseguenza sostengono che sia ‘militarista e imperialista’. Gente come J. Sakai nella sua opera molto importante sui ‘Coloni’, Marx ed Engels e Lenin hanno osservato che il sistema imperialista potrebbe funzionare solo comprandosi una parte considerevole della classe operaia del centro imperialista, in modo da allontanare la potenziale simpatia per la classe operaia globale e i popoli che combattono l’imperialismo, fungendo e continuando a fungere da minaccia.
Così l’imperialismo cerca sempre di ‘razzializzare’, o escludere dall’umanità o mettere nella ‘zona del non-essere’ (Fanon) tutti i popoli che vuole attaccare e distruggere, e gli assalti razzializzati più feroci ricadono sui popoli più scuri, ma anche i popoli dalla pelle assai meno scura possono sempre finire nello stato di disumanizzato pronto per la distruzione, come alcuni ‘bianchi’ o anche ‘biondi’ parte costituente dei popoli di Afghanistan, Libia, Palestina, Iraq, Ucraina orientale e anche i russi, come apertamente indica il metodo disumanizzato della supremazia bianca imperialista. Come in ogni nostro Paese, ci sono problemi di razzismo in Russia, ma la Russia ha una leadership che fornisce anche quadri che lo respingono, esempi sono le alleanze della Russia con i leader dell’Africa (Mugabe e altri sono gli alleati più stretti); critica e ostilità alla supremazia razziale, ad esempio nella forse più importante manifestazione di unità e forza della Russia insieme agli alleati (Zimbabwe, Sudafrica, India e altri) nel 70° anniversario della vittoria contro il fascismo, quando Putin ha dichiarato: “Non dobbiamo dimenticare che le idee della supremazia razziale e dell’esclusività hanno provocato la guerra più sanguinosa di sempre“. E infine, ma sicuramente non meno importante, la Russia guida sulla scena mondiale la difesa delle nostre Patrie dagli imperialisti. Ciò che è necessario è un’unità MAGGIORE tra la Russia e i più grandi e assertivi Paesi del Sud Globale e l’intera comunità del Sud globale, e questo si sviluppa rapidamente.
Il rinnovato impegno della Russia nella difesa della Siria contro il progetto di distruzione degli squadroni della morte imperialisti, in alleanza con Iraq e Iran, è un importante sviluppo per l’esistenza e la liberazione delle nostre Patrie. Abbiamo bisogno di altri patti militari difensivi tra i nostri Paesi, abbiamo bisogno di alleanze militari più strategiche tra i nostri Paesi per respingere e sconfiggere una volta per tutte tale sistema genocida suprematista. La Russia e altri non sono imperialisti, sono l’avanguardia della nostra difesa dai veri perpetratori delle peggiori violenze mai visite dall’umanità in questi ultimi 500 anni. Tali oppressori devono essere sconfitti e lo saranno solo dalla Russia e altri stretti nostri alleati, e il nostro compito è difendere le alleanze positive nell’unità o nella costruzione di una maggiore unità.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

giovedì 1 ottobre 2015

Intervista a Ymane Ghebremeschel, Portavoce Ufficiale del Presidente dell’Eritrea

Intervista di Stefano Pettini a Yemane Ghebremeschel Direttore dell’Ufficio Presidenziale e Portavoce Ufficiale del Presidente dell’Eritrea

In genere in merito agli accadimenti in corso nel tormentato Corno d'Africa vi è una certa tendenza a dare credito ad affermazioni, notizie e testimonianze non ufficiali, difficilmente verificabili e spesso diffuse ad arte allo scopo di generare confusione e assecondare fini occulti o comunque diversi dal perseguimento della tanto predicata pacificazione dell’area e dell'avvio del processo democratico.

Complice involontaria di questa tendenza è la incapacità culturale e ideologica di alcuni a difendersi scendendo nella arena mediatica per controbattere la disinformazione e sostenere le proprie ragioni. Si può affermare che gli eritrei in particolare, a causa della loro difficoltà a recidere i legami con gli antichi precetti sociali che considerano immorale anche solo dare peso con delle repliche a chi applica metodi di contrasto basati sulla diffamazione e la falsità, assumono un freddo atteggiamento di distacco facilmente strumentalizzabile.

I riflessi di questa tendenza sono resi evidenti dal fatto che le tematiche riguardanti l’Eritrea vengono trattate dai sistemi di informazione, ma spesso anche in ambiti  istituzionali, nelle maniere più disparate, inopportune e devianti dalla realtà oggettiva, a fronte di una virtuale assenza di repliche e contestazioni ufficiali. 

Nel corso dell’intervista con il Direttore dell’Ufficio Presidenziale e Portavoce Ufficiale del Presidente, sig. Yemane  Ghebremeschel, ho voluto quindi provare a invertire questa tendenza ponendo una serie specifica di quesiti allo scopo di chiarire attraverso dichiarazioni ufficiali di fonte governativa i contorni di alcuni luoghi comuni, riguardanti l'Eritrea, che con sospetta frequenza continuano ad alimentare polemiche e inimicizia nei confronti del Paese.

Questi i contenuti dell'intervista:

Intervista di Stefano Pettini a Yemane Ghebremeskel 

Direttore dell’Ufficio del Presidente dell’Eritrea

Asmara Aprile 2007



L'Eritrea e' accusata di ostacolare  rapporti con la stampa estera, vietando ai giornalisti  di svolgere il loro lavoro liberamente o rifiutandogli il visto d'ingresso nel paese. Quale e' la posizione ufficiale del governo?

L'accusa e' infondata. In primo luogo, non abbiamo una politica che vieta o rifiuta  visti d'ingresso ai giornalisti stranieri. C’è un certo numero di giornalisti stranieri che sono accreditati  e residenti nel paese sulla base di un visto concesso per motivi di lavoro: Agence France Presse  ha un giornalista residente; la  Reuters ha un ufficio;  Al-Sharq Al Awsat, il giornale per il Medio Oriente, ha un corrispondente; cosi pure la  Deustche Welle e via dicendo. In secondo luogo, le nostre Ambasciate concedono visti regolarmente, quando ci sono richieste da parte di cittadini stranieri che vogliono venire qui per viaggi brevi di lavoro, per fare interviste e realizzare  reportage ecc. Non ci sono limitazioni nel concedere i visti d'ingresso, ne per quanto si vuole vedere o ne per quello che si vuole fare nel paese. Perciò l'accusa e' in contrasto con la realtà. 

Bisogna comunque ricordare che nonostante l'ampia collaborazione data dal Governo alla stampa estera,  nel passato sono accaduti eventi deplorevoli dovuti a comportamenti scorretti di alcuni giornalisti. Per esempio quello del giornalista italiano Massimo Alberizzi, che scrive sul "Corriere della Sera" e del quale mi e' capitato, qualche volta, di leggere gli articoli;  mi e' estremamente difficile capire le motivazioni di tanto accanimento e delle sue grossolane e palesi distorsioni dei fatti come, per citare qualche esempio, nel caso della villa Melotti o della messinscena del suo "rapimento" a Mogadiscio dietro il quale ci sarebbe stata la longa manus degli eritrei. Era il periodo in cui gli Usa sostenevano, del tutto falsamente (come si e' visto in seguito) che in Somalia erano presenti oltre 2000 soldati eritrei. 

O quando, nel giugno o luglio 2000 dopo il suo ritorno da un viaggio in Eritrea, ebbe a dire in un dibattito pubblico a Roma, presente il Senatore Serri e altri funzionari del Ministero degli Esteri italiano: "nei luoghi delle battaglie che hanno avuto luogo nel mese di maggio, gli eritrei ci hanno mostrato quelli che sarebbero stati i cadaveri di numerosi soldati etiopici da loro uccisi. Chi sa che, però, gli stessi eritrei non abbiano messo divise etiopiche ai cadaveri dei loro stessi soldati uccisi dagli etiopici".

Un paio di anni fa, quello stesso personaggio venne qui come "funzionario dell'Onu", con tanto di tesserino esibito al personale portuale di Massawa, per indagare su un ipotetico flusso di armi dall'Eritrea alla Somalia. Spesso mi chiedo se quel personaggio e' un giornalista del "Corriere della Sera", un "funzionario dell'Onu" o qualcosa d'altro. Comunque sia, ciò che e' sconcertante e che i suoi "articoli" trovino spazio su una prestigiosa testata quale e' il "Corriere"  

Secondo Reporters Sans Frontier, l'Eritrea risulta in fondo a una classifica per quanto riguarda la libertà di stampa, che viene considera virtualmente assente nel paese. Come lo spiega?

Mi lasci innanzi tutto sottolineare che questa agenzia non e' una organizzazione neutrale e credibile. Infatti e' sostanzialmente finanziata da sospette istituzioni Usa che elargiscono denaro a determinate organizzazioni che sostengono certi obbiettivi politici dell'Amministrazione Usa. Non penso che noi abbiamo bisogno di un “certificato di buona salute” da organi di sospetta credibilità. La seconda questione e' la cosiddetta nostra classifica internazionale. Bisogna  essere realisti. Non credo che ci possa essere libertà di stampa senza limitazioni in tempi di guerra e conflitto dovunque esse si manifestino. 

Questo e' vero negli Usa e in Europa.  Nella Seconda Guerra del Golfo contro l'Iraq, per esempio, gli Americani hanno inventato il termine "embedded journalism". I giornalisti non seguivano la guerra senza nessun condizionamento. Erano messi in mezzo al convoglio militare per riferire quello che veniva loro raccontato dai militari. In precedenza, nella Prima Guerra del Golfo, gli Americani introdussero il "pool system” per censurare e regolamentare ciò che veniva riferito. Guardi alla situazione in Somalia di questi giorni. 

C'e' l’oscuramento virtuale delle notizie. Perchè? I bombardieri Americani hanno polverizzato villaggi in Somalia, però non ci sono immagini sugli  schermi televisivi. Ai giornalisti è stato impedito di recarsi sul luogo. Accusare o isolare l’Eritrea per aver preso misure legittime in situazioni di conflitto, per me e' soltanto ipocrisia e un modo di valutare i fatti con  pesi e misure differenti.   

Per quanto riguarda l'assenza della "Stampa Libera", abbiamo avuto esperienze limitate nel passato. La Norma sulla Stampa e' stata promulgata nel 1996. Il governo non ha intenzione di ostacolare  la crescita della Stampa Libera. Dopo tutto il monopolio, sia in economia che in politica, ha  risvolti negativi. In questo senso la  Libera Stampa e' fondamentale per una sana società. Pertanto in termini di principi generali e teorie astratte non ci discordanze. Il problema e' quali sono le regole del gioco?  Come incidono nella realtà?  Quali sono le applicazioni delle norme in tempi di guerra?

La Norma sulla Stampa del 1996, ha avuto le sue lacune che sono emerse nel 2000/2001, in concomitanza degli sviluppi di sovversione interna. La Norma prevedeva chiaramente che, finanziamenti esterni non erano permessi. Ciò nonostante, le disposizioni sulle responsabilità non erano strettamente osservate e applicate. La stragrande maggioranza dei "giornali privati" erano largamente finanziati da Paesi Occidentali per sostenere determinati obbiettivi in violazione della Norma stessa. Inoltre la Norma non aveva adeguate disposizioni riguardanti le petizioni contro la diffamazione. 

Non c'erano regole per il riconoscimento o codice etico professionale per garantire un minimo di qualità  di servizio standard. Come poi accade, la "stampa privata" era facilmente manipolata, infiltrata e pagata dai servizi stranieri per accomodare scopi secondari. E' in queste circostanze che il caso venne discusso dalla Assemblea Nazionale e la Norma venne sospesa per essere totalmente rivista.



L'Eritrea inoltre, e' accusata di essere repressiva nei confronti della libertà di culto ed e' stata responsabile di arresti di massa di fedeli che chiedono di pregare  liberamente. Quale e' la risposta del Governo?

Sono costernato quando parla di arresti di massa dei credenti. Che cosa e' un arresto di massa?  Quale e'  la "massa di gente" che di tanto in tanto si presume sia stata detenuta?  La realtà e' che alla gente non e' stato negato o vietato il diritto di pregare liberamente, perchè la nostra e' una società molto devota e di antiche religioni. Abbiamo fedi differenti in questo paese. Ci sono Musulmani e Cristiani. 

Abbiamo perfino una Sinagoga in questa città. Se guarda al panorama di Asmara, ha la  caratteristica di essere  punteggiato  da Moschee e Chiese adiacenti tra di loro. Come ho detto in precedenza, questa e' una società devota di forti tradizioni, fedi intrecciate e gente molto religiosa e sotto l'aspetto costituzionale, lo Stato e' laico. Perciò non ci sono problemi legali o pratiche a riguardo della libertà di fede. 

Però abbiamo avuto problemi con un manipolo di "nuove religioni", una frangia di gruppi che sono estranei alla società nel suo insieme. Dobbiamo essere molto chiari in questa distinzione. I Testimoni di Jehovah, per esempio, si rifiutarono di partecipare al referendum nazionale, per decidere l'indipendenza dell'Eritrea. Il loro ragionamento era: "non riconosciamo lo Stato o Governo temporale". Mantennero una posizione dicendo "non riconosciamo un Governo sulla terra perchè siamo responsabili soltanto davanti a Jehovah". Si opposero al servizio militare quando venne proclamato nel 1994. La reazione del Governo è stata moderata e consisteva nel rifiutare il rilascio oppure di rinnovo della licenza di lavoro ai loro membri. Perchè non si possono avere ambedue le cose: rifiutare di riconoscere il Governo e nello stesso tempo chiede un servizio legale dal Governo stesso.  

Negli ultimi sette/otto anni inoltre, sono emersi piccoli gruppi. La maggioranza di questi gruppi erano beneficiari di fondi esteri segreti o non dichiarati. La maggioranza di loro agirono contro le strutture fondamentali della nazione opponendosi al servizio nazionale o  infiltrandosi e seminando divisioni all'interno delle fedi tradizionali. In seguito a questo il Governo chiese la registrazione ufficiale di tutte le religioni e la dichiarazione fedele dell'origine dei loro finanziamenti.  Gli arresti episodici, che sono stati poi distorti ed esagerati, avvennero quando i membri di queste frange si riunirono illegalmente.  

L'Etiopia e' considerata il baluardo della cristianità contro l'espansione dell'Islam e punto di riferimento nella lotta contro il terrorismo nel Corno d'Africa. Quale e' la posizione del Governo Eritreo su queste due questioni?

In primo luogo, quando si fa il confronto tra l'Eritrea e l'Etiopia in termini di diversità di religioni e la dimensione delle differenti fedi, il quadro e' più o meno lo stesso. In Eritrea la popolazione  di fede musulmana e cristiana e'  più o meno equamente divisa. Anche in Etiopia  la percentuale e' analoga.  Anche in Sudan ci sono cristiani e musulmani. Pertanto, dipingere l'Etiopia come baluardo di cristianità o "isola di cristianità" e' praticamente sbagliato e improprio. Tuttavia, le rispettive percentuali sono sostanzialmente irrilevanti. Se lo Stato e' laico, in circostanze di diversità religiose, non ci sarà terreno per scontro religioso. Coesistenza e armonia tra le differenti fedi e religioni può essere coltivato e conservato. 

Nel caso dell'Eritrea, Cristiani e Musulmani hanno convissuto in armonia per ben 13 secoli. Nella nostra prolungata storia, non abbiamo mai avuto un conflitto sociale motivato da sentimenti religiosi. Abbiamo combattuto insieme contro nemici comuni. La religione e' stata e rimane  un fatto privato. Poi il modo in cui la questione viene impostata non e' appropriato perchè le differenti religioni posso convivere in una condizione ambientale laica. Per di più in termini puramente statistici, l'Etiopia non e' "un'isola di cristianità nel Corno d'Africa". Come ho descritto in precedenza, la composizione  delle due religioni  e' più o meno la stessa sia in Eritrea che in Etiopia. 

Sulla questione del terrorismo, disgraziatamente, c'e' una errata o forviante tendenza di confondere il terrorismo con l'Islam. Le comunità islamiche non sono ne intrinsecamente propense ne posseggono particolare attitudine per covare  il terrorismo o per compiere atti terroristici. In altre parole, il terrorismo non  può essere confuso con l'Islam. 

Perchè e' nato il terrorismo ? Come e' nato? Quale fu il ruolo di alcune potenze in  particolari congiunture storiche?  Se sta facendo riferimento agli Arabi Afgani, e' ben noto che gli Americani, gli appoggiarono fino ad certo punto nel contesto della Guerra Fredda. Le ragioni storiche, sociali e politiche che favorirono il terrorismo e' un argomento complesso. Non può essere ridotto ad una automatica divisione Cristiani/Musulmani.

Allo stesso modo, la pura propaganda che dipinge l'Etiopia come "il baluardo della Cristianità" e l'epicentro per la Guerra contro il terrorismo, e' un mito inventato dall'Etiopia o forse dagli Usa per assecondare altri secondi fini.

Il Governo Eritreo e' esplicitamente accusato di sostenere l'Unione delle  Corti  Islamiche (Uic) della Somalia in funzione anti-Etiopica, fornendo loro uomini ed armi. Come commenta questa affermazione?

La posizione dell'Eritrea e' molto chiara. Lo abbiamo dichiarato apertamente nelle varie sedi: nell'Igad, nella Assemblea Generale dell'Onu nel settembre 2006 e in altre sedi. Per noi il problema non e' una questione di preferenza tra l'Uic  e il Governo Federale di Transizione (Tfg). L'Eritrea ha legami storici che durano da oltre 50 anni. Questi legami coinvolgono tutto l'arco politico del paese. Tutti i somali sostenevano la lotta di liberazione Eritrea. Questo e' un aspetto, l'altro e' che quando dopo il 1991 la Somalia andava alla deriva,  ingarbugliata in conflitto interno, l'Eritrea era impegnata in varie iniziative per aiutare a frenare la pericolosa evoluzione in atto. Nel periodo tra il 1992 e il 1994,  stavamo lavorando con l'Etiopia. 

L'obiettivo primario era di promuovere la riconciliazione politica all'interno della Somalia. Ma l'Etiopia deviò verso la sua tradizionale politica di divisione e di indebolimento della Somalia su basi etniche. Questa divenne palese nella Conferenza di Sodorè svoltasi in Etiopia  nel 1997.  Da allora, la politica dell'Etiopia e' stata quello di dividere la Somalia in quattro/cinque mini Stati:  Somaliland, Punt Land, Benadir Land, ecc. Questa politica scaturisce dalla percezione di rischio dell'Etiopia stessa. Bisogna  ricordare che la Somalia e l'Etiopia si sono confrontati in guerra per due volte in questi ultimi quaranta anni (nel 1963 e nel 1977). L'Eritrea disapprova questa politica dell'Etiopia, perchè crea una permanente instabilità regionale. Se ci sono dispute territoriali (per esempio Ogaden) le soluzioni  devono avvenire sulla base della inviolabilità dei confini coloniali.  

L' Eritrea si e' fortemente opposta alla recente invasione della Somalia da parte dell'Etiopia. E' illegale sotto ogni aspetto. Il Primo Ministro etiopico ha dato tre dichiarazioni contraddittorie nello spazio di tre giorni quando lanciò l'invasione. La prima dichiarazione era che l'Etiopia si stava difendendo dal rischio derivante dall'Unione delle Corti Islamiche (Uic). Però come lei ben saprà, la Carta dell'Un non permette una invasione preventiva. Poi, il giorno dopo, forse resosi conto delle debolezze delle sue argomentazioni,  disse che stava spedendo le truppe su invito del Tfg. Queste due dichiarazioni sono contraddittorie. Il Tfg era originariamente nato per agire come catalizzatore nel restaurare la riconciliazione nazionale. 

Il Tfg può aver il potere legittimo per invitare potenze straniere per schiacciare l'opposizione interna? La terza dichiarazione che il Premier etiopico diede quando le sue truppe si avvicinavano Mogadiscio era che lo scopo dell'invasione era "indebolire sufficientemente" l’Uic in modo tale da costringerlo a sedersi al tavolo del negoziato. Questa e' una palese e illegittima interferenza in termini di norme internazionali. L'invasione etiopica non può essere giustificato da nessun sforzo di immaginazione. Se il Consiglio di Sicurezza non ha condannato l'Etiopia e' semplicemente perchè esiste la protezione degli Usa. 

Le svariate accuse contro Eritrea derivano dal desiderio di bilanciare l'invasione etiopica e di inventare un pretesto plausibile. La ostinata propaganda da parte del Dipartimento di Stato degli Usa ruota intorno alla rappresentazione della situazione come guerra per procura tra l'Eritrea e l'Etiopia. Prima dell'invasione  persistenti affermazioni venivano dal Dipartimento di Stato  che asseriva che 2000 soldati eritrei erano presenti in Somalia. Queste affermazioni svanirono nel nulla dopo l'invasione, perchè si accorsero che erano false fin dalla partenza. I’Uic era demonizzato e descritto come il Taliban del Corno d'Africa. Tutte queste affermazioni propagandistiche sono di fatto false invenzioni appositamente create per giustificare l'invasione della Somalia.

Come spiega il deterioramento delle relazioni diplomatiche che pian piano ha portato a un atteggiamento di chiusura e isolamento del Paese?

L'Eritrea non e' isolata, abbiamo relazioni diplomatiche praticamente con tutti i paesi. Abbiamo più di venti ambasciate straniere con residenza nel paese. Potremmo avere problemi con alcuni paesi, ma e' qualcosa che ha a che fare con la loro linea politica. Ovviamente, se alcuni governi ci chiedono compromessi sulla nostra sovranità e integrità territoriale, questo non e' il prezzo che dobbiamo pagare per mantenere relazioni diplomatiche. Esiste una linea rossa che non siamo disposti ad oltrepassare. Per il resto, abbiamo buoni rapporti con molti paesi europei anche se abbiamo avuto qualche problema con l'Italia per alcuni motivi. Abbiamo buone relazioni con molti nostri vicini, altri paesi Africani, Asiatici e paesi dell'America Latina. Pertanto, in linea generale, le nostre relazioni diplomatiche godono di buona salute.

Attualmente il nostro problema principale e' con gli Stati Uniti d'America. Questo e' dovuto alla politica degli Usa che in questa regione non e' equilibrata. Gli Americani sono i responsabili principali per il problema del confine con l'Etiopia. Il verdetto della Commissione Confini sarebbe gia attuato se non fosse stato ostacolato da Washington. Le iniziative degli Inviati Speciali (Axworthy, Fulford ecc.) sono invenzioni di Washington. Recentemente  stavano parlando di Gruppo di Contatto. La strategia e' di creare complicazioni ed ostacolare la pace in questa regione. Questo non può essere accettato 

Il Presidente Isaias e' stato accusato da alcuni osservatori, di aver imposto una svolta autoritaria a cominciare dall'arresto di ufficiali di rango, membri del governo che tuttora sono in detenzione senza specifiche accuse. Quali sono le motivazioni che stanno dietro questo atteggiamento?

Questo e' una sporca campagna propagata da alcune forze che non hanno a cuore il benessere dell'Eritrea. L'arresto di queste personalità  e' indiscutibile. A prescindere dalla posizione nel governo, se una persona commette un reato contro la sicurezza nazionale, non può essere immune dalla detenzione. E in questo caso, le detenzioni hanno una  storia a parte. Le persone in questione hanno commesso un atto di tradimento. Il collegamento che hanno tentato di creare con l’Etiopia nel momento culminante dell'invasione e' noto perfino ai mediatori. Questi sono fatti noti anche alla gente comune.  Qualsiasi governo che si fosse trovato in situazioni simili non avrebbe reagito altrimenti. La sostanza del loro crimine e' indiscutibile.  Non può essere camuffata da modalità procedurali.  




Perchè il Governo Eritreo sta mostrando una crescente ostilità verso l'Italia?  Prima, e' stato espulso l'Ambasciatore Antonio Bandini. Alcuni anni dopo sono stati espulsi i Carabinieri. Il Primo Segretario dell'Ambasciata, Ludovico Serra, e' stato inoltre espulso lo scorso anno a seguito dell'episodio della demolizione della villa Melotti a Massawa. Come spiega la sequenza di questi fatti?   

Il Governo dell' Eritrea non nutre affatto ostilità verso l'Italia. Le relazioni tra i due paesi risalgono nel tempo a oltre cento anni fa. Abbiamo profonde affinità culturali, interessi economici e flusso umano fin dal periodo coloniale. E' interesse dell'Eritrea stimolare e consolidare il legame storico. Pertanto, il termine "crescente ostilità verso Italia" non e' corretto. Ma questo non significa che, qualche volta, non abbiamo avuto problemi. Questi potrebbero non essere perfino problemi tra i due paesi o due governi. Potrebbero essere dovuti a comportamenti individuali di alcune persone.

Mi ha chiesto dell'Ambasciatore Bandini. E' un caso vecchio. L'Ambasciatore interferì più volte negli affari interni di sicurezza nazionale. Gli è stato chiesto di lasciare il paese. Questo e' normale ed e' previsto dall'articolo 9 della Convezione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche. Il caso dei  Carabinieri e' un caso a parte. Intanto il governo non ha mai chiesto l’espulsione, ma soltanto la interruzione della attività di polizia nella capitale che non era di loro competenza. I Carabinieri non erano qui come contingente italiano sulla base di accordi bilaterali con l'Eritrea. 

Erano qui come parte della United Nations Mission Etiopia Eritrea (Unmee), potevano essere Indiani, Cinesi, Tedeschi o di altri paesi. La loro nazionalità non ha a che vedere con il provvedimento. Il problema semmai era la natura del loro lavoro come polizia militare della Unmee. Quando ci fu il dispiegamento dell' Unmee  firmammo un Protocollo di Regole d'Ingaggio (Protocol of Rules of Engagement). In quel Protocollo non era  prevista attività di polizia nella Capitale. La attività di polizia nel paese non poteva essere delegata alla Unmee. Questa è competenza del Governo. 

Se alcuni ufficiali militari della Unmee potevano risultare assenti dalle loro postazioni della Zona di Sicurezza Provvisoria (Tsz), si sarebbe dovuto trovare un'altro meccanismo per controllarli. Altrimenti, non si poteva avere una Polizia del contingente in Asmara con un compito indefinito. Questo era al di fuori dell'accordo e questo è stato spiegato allora  alla Unmee. Nulla a che fare con l'Italia, in altre parole la decisione di rientrare è stata dei Carabinieri e solo loro, e al momento della loro partenza il Governo non ha avuto esitazioni a collaborare su richiesta della Ambasciata Italiana per trovare una soluzione a  imbarazzanti errori logistici creati dai Carabinieri stessi.  

Nel caso del Primo Segretario Ludovico Serra, mi permetta di ribadire un concetto fondamentale. La legge  prevede l'esproprio o la demolizione (secondo il caso) per scopi di sviluppo, di una casa di proprietà sia di un cittadino eritreo che di un cittadino straniero, con procedure appropriate e garanzie compensazione. La villa Melotti non può essere trattata eccezionalmente al di fuori delle previsioni di legge. Disgraziatamente, il Primo Segretario, andò al di fuori delle sue funzioni per bloccare personalmente il provvedimento municipale di demolizione. Questo e' un insulto e costituisce disprezzo delle leggi del paese. Da un ufficiale di rango assegnato alla Ambasciata Italiana ci attendiamo la cura delle relazioni tra i due paesi, non un aggravamento di queste senza ragioni.  Che cosa Le rivela il suo atteggiamento? 

Il fenomeno dell'immigrazione clandestine dei cittadini eritrei in Italia sta crescendo. Come vede il Governo Eritreo questa nuova tendenza?

Il problema e' un po' montato. Ma anche se fosse vero credo che il fenomeno sia strettamente transitorio e indotto dalla situazione di "ne guerra ne pace" in cui versa il paese. E' ovvio, non tutti sopportano la pressione e la tensione di una guerra incombente. Non e' per la prima volta che accade nella nostra storia. Durante gli anni di lotta di liberazione, migliaia di giovani si unirono alla lotta e un numero esiguo seguì la via dell'esilio. 

Il fenomeno attuale e' clandestino, perchè vige l'obbligo di servizio nazionale  e quelli che sono idonei e disertano sono punibili per legge. Però questi sono problemi transitori. Quando avremo la pace, mi aspetto una inversione di tendenza della situazione, come accadde nel 1991 dopo la liberazione. Infatti, negli anni immediatamente successive alla liberazione, più di 100.000 rifugiati ritornarono dal Sudan spontaneamente e attraverso rimpatrio organizzato. Migliaia di nostri cittadini ritornarono da tutto il mondo e investirono nel loro paese. 

Perfino in questi difficili momenti la tendenza nel suo insieme non e' caratterizzata dal flusso verso l'unica direzione della emigrazione. Se vede dai dati statistici locali, circa 70.000-80.000 eritrei sono tornati nel loro paese per brevi soggiorni. Per la verità la crescente migrazione che Lei ha citato, non e' superiore a poche centinaia in un anno e non e' paragonabile al flusso annuale inverso (rimpatrio transitorio o definitivo) dei nostri cittadini dalla Diaspora. 

Recentemente è tornato alla attenzione pubblica il problema di alcuni cittadini eritrei in detenzione in Libia e Malta che rischiano di essere rimpatriati nel loro paese di origine con la conseguente e possibile ritorsione da parte del Governo. Quale e' la posizione del Governo su questo problema?

Voglio ribadire ancora una volta che non dobbiamo esasperare il problema al di fuori delle sue proporzioni. Probabilmente stiamo parlando di pochi individui. Lasciando da parte i numeri, il problema e' essenzialmente un caso legale.  Se una persona sfugge all'obbligo del servizio nazionale e lascia il paese illegalmente, risponderà per il reato che ha commesso: evasione del servizio nazionale ed emigrazione illegale. Ci sono norme e regole che in caso di violazione  il Governo e' chiamato a far rispettare. 

Questo e' normale e non ci sono discussioni.  Le distorsioni emergono quando i cosiddetti gruppi difensori, come Amnesty International, vogliono forzare la mano al Governo e imporre condizioni al di fuori delle norme in vigore, per quelli che loro chiamano  "refouled asylum seekers". In primo luogo questi individui non sono asilo richiedenti in buona fede. Non hanno nessun motivo credibile di persecuzione. Non possono essere trattati in maniera diversa e beneficiare l'esenzione dall'obbligo del servizio nazionale. Questo sarebbe una discriminazione contrario al principio di equità ed eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

L’Eritrea e' anche considerata uno dei paesi più poveri del mondo e varie Ong  lamentano di affrontare difficoltà crescenti  per lavorare nel paese e accusano il Governo di aver espulso alcune di esse, perchè sono viste come testimoni scomode. Come vede il Governo Eritreo la cooperazione umanitaria e internazionale?

In primo luogo, l'etichetta "uno dei paesi più poveri " richiede una precisazione adeguata. L'Eritrea e' una nazione giovane che e' venuta fuori da trenta anni di guerra di liberazione nazionale. Dopo sette anni di sollievo il paese, e' stato di nuovo obbligato ad affrontare un attacco dell'Etiopia. Pertanto, se il Pil e altri indicatori economici sono bassi, non c'e' di che meravigliarsi. Vorrei piuttosto focalizzare la attenzione sulla laboriosità del popolo eritreo, sulla politica economica prudente del Governo e sulle enormi risorse del paese  per valutare le reali potenzialità in un ambiente favorevole di pace. 

Ci sono vari settori, compresi il turismo, l'agricoltura, quello minerario e quello della pesca che hanno grandi potenzialità. Prima dell'invasione etiopica del 1998, il paese cresceva a un tasso di 7-9% annuo. Quando la pace permanente sarà garantita, il paese crescerà con un ritmo rapido per assicurare costantemente un buon tenore di vita ai propri cittadini. Perciò, non condivido questa descrizione cupa dell'Eritrea sia in termini delle sue potenzialità che del suo futuro. L'Eritrea non e' davvero una nazione intrinsecamente o strutturalmente povera destinata a vivere elemosinando da Ong o da organizzazioni di beneficenza per un periodo indefinito.

In secondo luogo, sulla questione delle Ong,  ci sono alcune distorsioni. Il Governo ha gia chiarito, più di una volta,  la sua posizione in maniera esauriente. Le Ong hanno sostenuto energicamente la lotta di liberazione e hanno avuto una funzione utile nei momenti critici. In questo momento, circa dodici Ong stanno lavorando. Per quanto riguarda l'assistenza umanitaria e la cooperazione allo sviluppo, noi riconosciamo la anormalità della nostra situazione e non abbiamo  inibizioni  nel chiedere assistenza. Allo stesso tempo però non vogliamo che l'assistenza crei situazioni di dipendenza cronica. Riguardo alle Ong ci sono regole chiare relative ai costi d'amministrazione, modalità di attuazione e priorità di programmi.

Non vogliamo vedere il proliferare di Ong impegnate in programmi piccoli, disconnessi e non sostenibili che  creano dispersione di risorse.  Ci sono regole aggiuntive relative al lavoro di consulenza e allo sviluppo delle capacità locali; nel senso che la priorità e' sempre data alla sviluppo delle capacità locali. Le divergenze nell'affrontare tutte queste questioni, sono le ragioni per le quali la cooperazione allo sviluppo ha incontrato problemi  e perché alcune  Ong non sono riuscite a qualificarsi per la registrazione. 

Nel caso delle Ong in particolare ci sono livelli minimi di budget annuale (due milioni di dollari americani)  che devono essere in grado di procurarsi per essere operative.  La logica è che è alla base del livello minimo di budget e' quella di assicurare l'attuazione di programmi significativi ed evitare progetti piccoli e non regolari che non hanno sostenibilità e che potrebbero creare dipendenze.

Quale e' l'atteggiamento del Governo verso le Ong italiane in particolare?

Alcune sono operative.  Altre che non avevano i requisiti  richiesti non hanno potuto registrarsi. In ogni modo, le Ong italiane non sono viste con occhio discriminatorio rispetto alle altre Ong. Al contrario il desiderio e' quello di permettere loro di operare se e quando vicine alla soglia del budget annuale.   

In molte occasioni il Governo Eritreo ha dichiarato che la povertà in Eritrea deriva da responsabilità politiche esterne. Su quali fatti fondamentali si basa  di questa affermazione?   

Senza la dichiarazione di guerra da parte dell'Etiopia nel 1998 e quello che e' successe dopo, la crescita economica oggi sarebbe del tutto differente dalla situazione attuale. I motivi per i quali l'Etiopia e' stata incoraggiata e lasciata libera di rifiutare il verdetto dell’Arbitrato e mantenere una situazione di tensione, si trovano negli interessi e considerazioni esterne e geopolitiche. I fattori negativi che stanno frenando o ostacolando il rapido sviluppo e la crescita economica, dipendono dalla ostilità degli attori regionali e internazionali. Sono questi i problemi principali. Altrimenti, in un contesto regionale pacifico e stabile, le potenzialità dell'Eritrea sarebbero veramente  enormi. Abbiamo settori che presentano vantaggi comparati che possono essere sfruttati e che possono dare un contributo per una economia dinamica e vibrante.    

Come pensa il Governo possa raggiungere l'obiettivo della sicurezza alimentare, nonostante le carenze economiche e  di manodopera nel paese?

Non sono d'accordo con le Sue affermazioni. Se per carenza di manodopera sta alludendo al servizio militare nazionale, questo non e' vero. La verità e' che molti di loro sono impegnati in attività economiche produttive durante il periodo di relativa pace. Perciò la manodopera non e' un ostacolo. In termini di produzione per la sicurezza alimentare, l'investimento richiesto per un periodo di tre anni, non e' grande. Si tratta di gestione idrica, canali di contenimento,  costruzione di piccole dighe e raccolta delle coltivazioni. Non stiamo parlando di investimenti di miliardi di dollari. Perciò e' fattibile. Non si tratta di teorie astratte o di programmi ambiziosi e vaghi. Forse, l'anno passato le piogge erano eccezionalmente buone, comunque la combinazione delle buone piogge e gli intensi programmi per la sicurezza alimentare hanno veramente assicurato un buon raccolto.

venerdì 25 settembre 2015

Robert Mugabe invita i paesi africani alla lotta per l'indipendenza.

Al termine della sua visita di Stato in Sudafrica durata due giorni, il presidente del Zimbabwe se l'è presa con l'Occidente, e in particolare con la Francia, accusata di faver fatto man bassa in Africa.

Robert Mugabe si trovava a pretoria per negoziare una cooperazione economica tra Sudafrica e Zimbabwe. L'economia dello Zimbabwe, in difficoltà, ha bisogni di un rilancio. Durante la sua visita il presidente Robert Mugabe si è scagliato contro l'Occidente, l'ONU, e la Francia in particolare.
Rispondendo a quelli che lo criticano per la sua riforma agraria, ha risposto che la lotta per l'indipendenza ha giustificato le invasione delle fattorie detenute dagli occidentali.

Mugabe non ha perso l'occasione per denunciare il saccheggio delle risorse naturali del continente africano da parte degli occidentali. Indirizzandosi a degli imprenditori, giovedì a Pretoria, il presidente Mugabe ha giustificato la sua politica di nazionalizzazione delle imprese, ricordando che le risorse naturali africane, appartengono agli africani.

Il presidente in carica dell'Unione Africana ha invitato i paesi francofoni a riprendersi l'indipendenza, soprattutto dalla Francia, sottolineando che nella maggior parte dei paesi africani l'indipendenza non è stata raggiunta che per metà.

"Certi non controllano nemmeno più le proprie risorse naturali. Andate in Gabon, tutta la ricchezza del sottosuolo appartiene alla Francia. È l'accordo che è stato fatto, ed è la stessa cosa nella maggior parte dei paesi francofoni. Scoprono del petrolio, è per la Francia. Scoprono dei diamanti, sono per la Francia. E le miniere naturalmente sono francesi. Cosa ottenete in cambio? Il 12%, magari il 15% dei profitti? ?È per questo che quei paesi sono vittime di tentativi di colpi di Stato uno dopo l'altro. Ma malauguratamente gli spagnoli, i francesi, sono i mandanti dei colpi di Stato." ha detto Mugabe ai microfoni di Rfi.

Il presidente dello Zimbabwe ha inoltre chiesto all'Africa del Sud di contribuire allo sviluppo della regione, e ha esortato gli uomini d'affari sudafricani ad investire nello Zimbabwe.

"Ci siamo battuti per voi, perché aveste la libertà di poter utilizzare le risorse naturali nei vostri affari. Posso assicurarvi ch lo Zimbabwe è aperto ai vostri affari."

Mugabe non intende abbandonare la sua politica di "indigenizzazione", che priva le imprese straniere del controllo delle loro filiali locali, e che preoccupa enormemente gli investitori stranieri.

Il viaggio in Sudafrica gli ha permesso di invitare la diaspora zimbabwese a ritornare nel paese ad investire.

"La politica di diaspora nazionale intende creare delle opportunità per gli zimbabwesi all'estero affinché possano contribuire per mezzo dei loro investimenti, delle loro conoscenze, allo sviluppo del paese"
 
In Africa del Sud vivono più di un milione di zimbabwesi scappati dalla povertà e dalle violenze nel loro paese.








Tradotto dal francese da Amedeo Sartorio

originale: http://negronews.fr/2015/04/13/actualite-robert-mugabe-appelle-les-pays-francophone-dafrique-a-arracher-leur-totale-independance/

mercoledì 23 settembre 2015

Il ruolo del trotskismo nella vicenda cilena

Ho deciso di pubblicare questo breve articolo di Riccardo Rompietti, poco approfondito e documentato, ma condivisibile, per riaprire la questione de "l'estremismo, malattia infantile del comunismo" (Lenin) in questa epoca in cui gli ultrasinistri cominciano non a criticare in modo costruttivo il socialismo del secolo venutesimo in America Latina, ma a cercare di abbatterlo e screditarlo facendo così chiaramente il gioco del grande capitale monopolistico e degli USA.



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É da poco trascorso con l’11 settembre, il ricordo sentito di una grande figura politica del socialismo latinoamericano e mondiale, parliamo chiaramente di Salvador Allende presidente del Cile e lider della coalizione di “Unidad Popular”
Salvador Allende era un uomo il cui lungimirante programma politico di emancipazione nazionale e di transizione graduale verso una società maggiormente egalitaria non poteva essere certo tollerato dal potente vicino del Nord, il quale aveva, oltre che specifici interessi economici e geopolitici messi sotto scacco da Allende, ben altri progetti per il futuro della nazione cilena, poi messi in atto dalla criminale giunta golpista di Pinochet.
Unidad Popular” era una coalizione di partiti che accoglieva nel proprio seno socialisti, comunisti, radicali e varie altre sigle della sinistra cilena, ma prima ancora che con gli Stati Uniti e con le falangi più reazionarie dell’esercito, prima ancora che con la più chiusa oligarchia, il governo si trovò a dover fronteggiare gli attacchi e le calunnie degli “avventuristi di sinistra”, manipoli di estremisti, formalmente vicini alle aree trotskista ed anarchica, ma che in realtà condividevano argomenti e strategie con l’alta borghesia.
Il caso non era nuovo né esclusivamente cileno, infatti l’indistinto mondialismo che accomuna (oggi come allora) i “nuovi sinistri” e gli interessi capitalistici ha come primi avversari i movimenti social-comunisti nazionali; nei loro confronti in tutto il mondo è stata portata avanti una lotta spietata, forsennata, diretta a screditare, spezzare e, ove possibile, distruggere i partiti operai e contadini legati all’URSS.
Trovo di grandissimo interesse, sia per la lucidità delle analisi che per la completezza dell’esposizione, un agile pamphlet uscito sul Kommunist n. 18 del 1971 dalla mano di un membro della segreteria del CC del PCUS intitolato “Il trotskismo strumento dell’anticomunismo”.1
L’autore, in queste infuocate ma lucide pagine, delinea la natura ed il ruolo dell’estremismo di sinistra in favore dei nemici delle forze progressiste offrendo diversi validi esempi attraverso tutto il pianeta; il radicalismo che se ne evince, al di là delle concrete esperienze politiche, dal punto di vista ideologico porta come conseguenza ad una rarefazione dei rapporti di forza imbrigliando il movimento in un soggettivismo avventurista senza uscita. Per quanto riguarda l’America Latina è d’uopo ritornare sulle parole di Fidel:
La «IV internazionale»2 ha perpetrato…un vero crimine contro il movimento rivoluzionario con lo scopo di isolare questo movimento dal popolo, isolarlo dalle masse, screditarlo, contaminarlo con quanto di più insensato, rivoltante e nauseante che esiste attualmente nel campo della politica: il trotskismo…il trotskismo… si è trasformato in un volgare strumento dell’imperialismo e della reazione”.  Tornando al Cile è proprio in questo frangente che l’opera di Ponomariov da il meglio si sé, arrivando a preconizzare con l’aiuto del proprio fiuto politico quanto sarebbe accaduto sulla Cordillera de la costa nel volgere di pochi mesi. É dall’analisi dei fenomeni di entrismo, dei quali era stato oggetto anche il CC del PC cileno, che si evince la linea di questo particolare “anticomunismo di sinistra”: gruppuscoli insediatisi ai vertici del partito che operano di concerto con le organizzazioni reazionarie di estrema destra, condividendo con esse tattiche, strumenti e, soprattutto, finalità; lo scopo è infatti quello di isolare dalle masse le forze “Unidad Popular” e la figura di Allende.
Divisioni e sabotaggi che porteranno all’indebolimento della compagine governativa proprio nel momento in cui si scatenerà l’offensiva politico-economica dei gruppi industriali e degli USA che si concluderà com’è tristemente noto.
Dalla Ligue communiste révolutionnaire a Red Flag, dai vari “scissionisti” di USA , Cile e Giappone a Il manifesto, l’azione curata quanto improvvisa degli estremisti di sinistra nel nome di parole d’ordine ultrarivoluzionarie non ha mai fatto a meno del benevolente appoggio dei grandi oligopolisti i quali si sono ben giovati, in Cile come altrove, della canalizzazione dell’isterismo di determinate fasce di borghesia piccola piccola contro la minaccia ,che non potevano confessarsi, dell’emancipazione proletaria, tentando dunque di procrastinarla quanto più possibile con la ricerca senza fine di una radicalità iperuranea.
Voi siete uno strumento della provocazione imperialistica: questa è la vostra funzione obiettiva. E la vostra “psicologia” soggettiva è la psicologia del piccolo-borghese infuriato […]”.3


1. B. Ponomariov, Il trotskismo strumento dell’anticomunismo, Mosca, Novosti, 1972.
2. Organizzazione creata da Trotsky nel 1938.
3. V. Lenin, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol 27, pag. 29

preso da: http://www.opinione-pubblica.com/2015/09/18/il-ruolo-del-trotskismo-nella-vicenda-cilena/

domenica 6 settembre 2015

Chi è il Dalai Lama?

Vi propongo un articolo dello storico marxista Domenico Losurdo, per fare cadere alcuni miti sul Dalai Lama, icona "nonviolenta" idolatrata da una certa sinistra degenerata, ma in realtà pedina della CIA nel progetto atlantico di balcanizzazione della Cina.






Chi è il Dalai Lama?


Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del campione della lotta di «liberazione del popolo tibetano».

Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per l’esattezza nella provincia di Amdo che nel 1935, l’anno della nascita, era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del 13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un convento, per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.



1. Un «paradiso» raccapricciante

Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di semi-ufficialità (si conclude con il «Messaggio» in cui il Dalai Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche i particolari più inquietanti. Nel 1946, Harrer incontra a Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si sono trasferiti ormai da molti anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia, essi non sono ancora divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese, continuano a parlare un dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che si esprime in tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un «interprete». Certo, la loro vita è cambiata radicalmente: «Era un grosso salto quello dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà». Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa separazione. In cambio, i genitori avevano potuto godere di una prodigiosa ascesa sociale. Siamo in presenza di un comportamento discutibile? Non sia mai detto. Harrer si affretta subito a sottolineare la «nobiltà innata» di questa coppia (p. 133): come potrebbe essere diversamente, dato che si tratta del padre e della madre del Dio-Re?

Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è chiamato a governare? Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce col riconoscerlo: «La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione». Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro il «potere» ma anche «chiunque lo metta in dubbio» (p. 76). Diamo ora uno sguardo ai rapporti sociali. Si direbbe che la merce più a buon mercato sia costituita dai servi (si tratta, in ultima analisi, di schiavi). Harrer descrive giulivo l’incontro con un alto funzionario: anche se non è un personaggio particolarmente importante, egli può comunque disporre di un «seguito di trenta servi e serve» (p. 56). Essi vengono sottoposti a fatiche non solo bestiali ma persino inutili: «Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale». Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma «il governo non voleva la ruota»; e, come sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione il potere della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli anni: «forse così era più felice» (pp. 159-160).

Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né lo sguardo. Ecco cosa avviene nel corso di una processione:

«Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama […] Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor […] Le donne non osavano respirare».

Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale:

«Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine al caos […] I monaci-soldato entrarono subito in azione […] All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla […] Ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni […] Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato!» (pp. 157-8).

Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto in un paragrafo dal titolo eloquente: «Un dio alza, benedicendo, la mano». L’unico momento in cui Harrer assume un atteggiamento critico si verifica allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del Tibet del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso circolano farmaci assai singolari: «spesso i lama ungono i loro pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene somministrata ai malati» (p. 194). Qui si ritrae perplesso anche il nostro autore devoto e bacchettone: se pure dal «Dio-Ragazzo» è stato «persuaso a credere nella reincarnazione» (p. 248), egli tuttavia non riesce a «giustificare il fatto che si bevesse l’urina del Buddha Vivente», e cioè del Dalai Lama. Solleva il problema con quest’ultimo, ma con scarsi risultati: il Dio-Re «da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava troppo». Ciò nonostante, il nostro autore, che si accontenta di poco, messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile: «In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l’urina delle vacche sacre» (p. 294).

A questo punto, Harrer può procedere senza più impacci nella sua opera di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà, esso è carico di violenza e non conosce neppure il principio della responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche trasversali e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche assai lieve o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i crimini considerati più gravi? «Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio» (p. 75). Ma anche reati minori, ad esempio «il gioco d’azzardo», possono essere puniti in modo spietato se commessi nei giorni di festività solenni: «i monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale» (pp. 153-3). La violenza più selvaggia caratterizza i rapporti non solo tra «semidei» e «esseri inferiori» ma anche tra le diverse frazioni della casta dominante: ai responsabili delle frequenti «rivoluzioni militari» e «guerre civili» che caratterizzano la storia del Tibet pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono fatti «cavare gli occhi con una spada» (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che «le punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità della popolazione» (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è ai suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: «Dopo un po’ che si è nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare un insetto soltanto perché mi infastidiva» (p. 183). In conclusione, siamo in presenza di un «paradiso» (p. 77). Oltre che di Harrer, questa è l’opinione anche del Dalai Lama che nel suo «Messaggio» finale si abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re: «ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice» (happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in «un paese libero».


2. «Invasione» del Tibet e tentativo di smembramento della Cina

Questo paese «felice» e «libero», questo «paradiso» viene trasformato in un inferno dall’«invasione» cinese. Le mistificazioni non hanno mai fine. Ha realmente senso parlare di «invasione»? Quale paese aveva riconosciuto l’«indipendenza» del Tibet e intratteneva con esso relazioni diplomatiche? In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un libro sulle relazioni Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano accludeva una mappa di per sé eloquente: con tutta chiarezza sia il Tibet che Taiwan vi figuravano quali parti integranti del grande paese asiatico, impegnato a porre fine una volta per sempre alle amputazioni territoriali imposte da un secolo di aggressioni colonialiste e imperialiste. Naturalmente, con l’avvento dei comunisti al potere, cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni falsificazione storica e geografica è lecita se essa consente di ridare slancio alla politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio e di avanzare cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.

E’ un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959. Con un cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a Pechino, il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una rivendicazione nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è di origine tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è la sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale ed estrema miseria del popolo, può coltivare i suoi raffinati gusti cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano «squisitezze di tutte le parti del mondo» (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti che, nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di ristrettezza provinciale: «le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall’Italia e l’ambra da Berlino e Königsberg» (p. 166). Ma mentre si sente affine all’aristocrazia parassitaria di ogni angolo del mondo, la casta dominante tibetana guarda ai suoi servi come ad una razza diversa e inferiore; sì, «la nobiltà ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango» (p. 191). Che senso ha allora parlare di lotta di indipendenza nazionale? Come possono esserci una nazione e una comunità nazionale se, per riconoscimento dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario, i «semidei» nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi, li bollano e li trattano quali «esseri inferiori» (pp. 170 e 168)?

D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama, allorché comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza? E’ il Grande Tibet, che avrebbe dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente detto, annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del territorio della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà multisecolare e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva e costituisce un elemento essenziale del progetto di smembramento di un paese che, a partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare i sogni di dominio mondiale accarezzati a Washington.

Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e gli «esseri inferiori» a cui chiaramente non prestano molta attenzione i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet pre-rivoluzionario è una «teocrazia» (p. 169): «un europeo difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio del Dio-Re» (p. 270). Sì, «il potere della gerarchia era illimitato» (p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto dell’esistenza: «la vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui unici interpreti sono i lama» (p. 182). Ovviamente, non c’è distinzione tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano «alle tibetane le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non abiurare» (p. 169); non era consentito convertirsi dal lamaismo all’Islam. Assieme ai rapporti matrimoniali anche la vita sessuale conosce una regolamentazione occhiuta: «per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del naso» (p. 191). E’ chiaro: pur di smembrare la Cina, Washington non esitava a montare in sella al cavallo fondamentalista del lamaismo integralista e del Dalai Lama.

Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto: il progetto secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora le dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’«autonomia». In realtà, il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di parole. Già, nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs, la rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di Melvyn C. Goldstein, si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti: nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente, c’è sempre spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla diffusione dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta da un numero di persone ben più elevato che nel Tibet pre-rivoluzionario. E’ da aggiungere che solo la distruzione dell’ordinamento castale e delle barriere che separavano i «semidei» dagli «esseri inferiori» ha reso possibile l’emergere su larga base di un’identità culturale e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il rovesciamento della verità.

Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario sviluppo economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al tenore di vita e alla durata media della vita cresce anche la coesione tra i diversi gruppi etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento dei matrimoni misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ciò diventa il nuovo cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un esempio clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29 novembre. Mi limito qui a citare il sommario: «L’integrazione tra questi due popoli è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul tetto del mondo». Chiaramente, il giornalista si è lasciato abbagliare dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza etnica e religiosa che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e secessionisti. Per comprenderne il carattere regressivo, basta ridare la parola al cronista che ha ispirato Hollywood. Nel Tibet pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi «si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via dicendo». Sono ben presenti anche i nepalesi: «Le loro famiglie rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare» (pp. 168-9). La maggiore «autonomia» che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet propriamente detto ovvero per il Grande Tibet, dovrebbe comportare anche la possibilità per il governo regionale di vietare i matrimoni misti e di realizzare una purezza etnica e culturale che non esisteva neppure prima del 1949?

 3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e la denuncia del pericolo giallo
L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette di cogliere la sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese in corso. Com’è noto, nel ricercare le origini della razza «ariana» o «nordica» o «bianca», la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso guardato con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe preso le mosse la marcia trionfale della razza superiore. Nel 1939, al seguito di una spedizione delle SS l’austriaco Harrer giunge nell’India del nord (oggi Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet. Allorché incontra il Dalai Lama, subito lo riconosce e lo celebra come membro della superiore razza bianca: «La sua carnagione era molto più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella dell’aristocrazia tibetana» (p. 280). Del tutto estranei alla razza bianca sono invece i cinesi. Ecco perché è un evento straordinario la prima conversazione che Sua Santità ha con Harrer: egli si trovava «per la prima volta solo con un uomo bianco» (p. 277). In quanto sostanzialmente bianco il Dalai Lama non era certo inferiore agli «europei» ed era comunque «aperto a tutte le idee occidentali» (pp. 292 e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un «ministro-monaco» del Tibet sacro: «nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la religione e imporrà la sua egemonia al mondo» (p. 141). Non c’è dubbio: la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del libro che ha ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.

Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio in Italia. Fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono considerare Richard Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di dollari per celebrare la leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente misterioso. E’ doloroso ammetterlo ma bisogna prenderne atto: è ormai da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti cinematografici più torbidi.