Al termine della sua visita di Stato in Sudafrica durata due giorni,
il presidente del Zimbabwe se l'è presa con l'Occidente, e in
particolare con la Francia, accusata di faver fatto man bassa in Africa.
Robert
Mugabe si trovava a pretoria per negoziare una cooperazione economica
tra Sudafrica e Zimbabwe. L'economia dello Zimbabwe, in difficoltà, ha
bisogni di un rilancio. Durante la sua visita il presidente Robert
Mugabe si è scagliato contro l'Occidente, l'ONU, e la Francia in
particolare.
Rispondendo a quelli che lo criticano per la sua riforma
agraria, ha risposto che la lotta per l'indipendenza ha giustificato le
invasione delle fattorie detenute dagli occidentali.
Mugabe
non ha perso l'occasione per denunciare il saccheggio delle risorse
naturali del continente africano da parte degli occidentali.
Indirizzandosi a degli imprenditori, giovedì a Pretoria, il presidente
Mugabe ha giustificato la sua politica di nazionalizzazione delle
imprese, ricordando che le risorse naturali africane, appartengono agli
africani.
Il presidente in carica dell'Unione Africana
ha invitato i paesi francofoni a riprendersi l'indipendenza, soprattutto
dalla Francia, sottolineando che nella maggior parte dei paesi africani l'indipendenza non è stata raggiunta che per metà.
"Certi
non controllano nemmeno più le proprie risorse naturali. Andate in
Gabon, tutta la ricchezza del sottosuolo appartiene alla Francia. È
l'accordo che è stato fatto, ed è la stessa cosa nella maggior parte dei
paesi francofoni. Scoprono del petrolio, è per la Francia. Scoprono dei
diamanti, sono per la Francia. E le miniere naturalmente sono francesi.
Cosa ottenete in cambio? Il 12%, magari il 15% dei profitti? ?È per
questo che quei paesi sono vittime di tentativi di colpi di Stato uno
dopo l'altro. Ma malauguratamente gli spagnoli, i francesi, sono i mandanti dei colpi di Stato." ha detto Mugabe ai microfoni di Rfi.
Il
presidente dello Zimbabwe ha inoltre chiesto all'Africa del Sud di
contribuire allo sviluppo della regione, e ha esortato gli uomini
d'affari sudafricani ad investire nello Zimbabwe.
"Ci
siamo battuti per voi, perché aveste la libertà di poter utilizzare le
risorse naturali nei vostri affari. Posso assicurarvi ch lo Zimbabwe è
aperto ai vostri affari."
Mugabe non intende
abbandonare la sua politica di "indigenizzazione", che priva le imprese
straniere del controllo delle loro filiali locali, e che preoccupa
enormemente gli investitori stranieri.
Il viaggio in Sudafrica gli ha permesso di invitare la diaspora zimbabwese a ritornare nel paese ad investire.
"La
politica di diaspora nazionale intende creare delle opportunità per gli
zimbabwesi all'estero affinché possano contribuire per mezzo dei loro
investimenti, delle loro conoscenze, allo sviluppo del paese"
In Africa del Sud vivono più di un milione di zimbabwesi scappati dalla povertà e dalle violenze nel loro paese.
Tradotto dal francese da Amedeo Sartorio
originale:
http://negronews.fr/2015/04/13/actualite-robert-mugabe-appelle-les-pays-francophone-dafrique-a-arracher-leur-totale-independance/
venerdì 25 settembre 2015
mercoledì 23 settembre 2015
Il ruolo del trotskismo nella vicenda cilena
Ho deciso di pubblicare questo breve articolo di Riccardo Rompietti,
poco approfondito e documentato, ma condivisibile, per riaprire la
questione de "l'estremismo, malattia infantile del comunismo" (Lenin) in
questa epoca in cui gli ultrasinistri cominciano non a criticare in
modo costruttivo il socialismo del secolo venutesimo in America Latina,
ma a cercare di abbatterlo e screditarlo facendo così chiaramente il
gioco del grande capitale monopolistico e degli USA.
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É da poco trascorso con l’11 settembre, il ricordo sentito di una grande figura politica del socialismo latinoamericano e mondiale, parliamo chiaramente di Salvador Allende presidente del Cile e lider della coalizione di “Unidad Popular”
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É da poco trascorso con l’11 settembre, il ricordo sentito di una grande figura politica del socialismo latinoamericano e mondiale, parliamo chiaramente di Salvador Allende presidente del Cile e lider della coalizione di “Unidad Popular”
Salvador Allende era un uomo il cui
lungimirante programma politico di emancipazione nazionale e di
transizione graduale verso una società maggiormente egalitaria non
poteva essere certo tollerato dal potente vicino del Nord, il quale
aveva, oltre che specifici interessi economici e geopolitici messi sotto
scacco da Allende, ben altri progetti per il futuro della nazione
cilena, poi messi in atto dalla criminale giunta golpista di Pinochet.
“Unidad Popular” era una coalizione di partiti che accoglieva nel proprio seno socialisti, comunisti, radicali e varie altre sigle della sinistra cilena, ma prima ancora che con gli Stati Uniti e con le falangi più reazionarie dell’esercito, prima ancora che con la più chiusa oligarchia, il governo si trovò a dover fronteggiare gli attacchi e le calunnie degli “avventuristi di sinistra”, manipoli di estremisti, formalmente vicini alle aree trotskista ed anarchica, ma che in realtà condividevano argomenti e strategie con l’alta borghesia.
Il caso non era nuovo né esclusivamente cileno, infatti l’indistinto mondialismo che accomuna (oggi come allora) i “nuovi sinistri” e gli interessi capitalistici ha come primi avversari i movimenti social-comunisti nazionali; nei loro confronti in tutto il mondo è stata portata avanti una lotta spietata, forsennata, diretta a screditare, spezzare e, ove possibile, distruggere i partiti operai e contadini legati all’URSS.
Trovo di grandissimo interesse, sia per la lucidità delle analisi che per la completezza dell’esposizione, un agile pamphlet uscito sul Kommunist n. 18 del 1971 dalla mano di un membro della segreteria del CC del PCUS intitolato “Il trotskismo strumento dell’anticomunismo”.1
L’autore, in queste infuocate ma lucide pagine, delinea la natura ed il ruolo dell’estremismo di sinistra in favore dei nemici delle forze progressiste offrendo diversi validi esempi attraverso tutto il pianeta; il radicalismo che se ne evince, al di là delle concrete esperienze politiche, dal punto di vista ideologico porta come conseguenza ad una rarefazione dei rapporti di forza imbrigliando il movimento in un soggettivismo avventurista senza uscita. Per quanto riguarda l’America Latina è d’uopo ritornare sulle parole di Fidel:
“La «IV internazionale»2 ha perpetrato…un vero crimine contro il movimento rivoluzionario con lo scopo di isolare questo movimento dal popolo, isolarlo dalle masse, screditarlo, contaminarlo con quanto di più insensato, rivoltante e nauseante che esiste attualmente nel campo della politica: il trotskismo…il trotskismo… si è trasformato in un volgare strumento dell’imperialismo e della reazione”. Tornando al Cile è proprio in questo frangente che l’opera di Ponomariov da il meglio si sé, arrivando a preconizzare con l’aiuto del proprio fiuto politico quanto sarebbe accaduto sulla Cordillera de la costa nel volgere di pochi mesi. É dall’analisi dei fenomeni di entrismo, dei quali era stato oggetto anche il CC del PC cileno, che si evince la linea di questo particolare “anticomunismo di sinistra”: gruppuscoli insediatisi ai vertici del partito che operano di concerto con le organizzazioni reazionarie di estrema destra, condividendo con esse tattiche, strumenti e, soprattutto, finalità; lo scopo è infatti quello di isolare dalle masse le forze “Unidad Popular” e la figura di Allende.
Divisioni e sabotaggi che porteranno all’indebolimento della compagine governativa proprio nel momento in cui si scatenerà l’offensiva politico-economica dei gruppi industriali e degli USA che si concluderà com’è tristemente noto.
Dalla Ligue communiste révolutionnaire a Red Flag, dai vari “scissionisti” di USA , Cile e Giappone a Il manifesto, l’azione curata quanto improvvisa degli estremisti di sinistra nel nome di parole d’ordine ultrarivoluzionarie non ha mai fatto a meno del benevolente appoggio dei grandi oligopolisti i quali si sono ben giovati, in Cile come altrove, della canalizzazione dell’isterismo di determinate fasce di borghesia piccola piccola contro la minaccia ,che non potevano confessarsi, dell’emancipazione proletaria, tentando dunque di procrastinarla quanto più possibile con la ricerca senza fine di una radicalità iperuranea.
“Voi siete uno strumento della provocazione imperialistica: questa è la vostra funzione obiettiva. E la vostra “psicologia” soggettiva è la psicologia del piccolo-borghese infuriato […]”.3
“Unidad Popular” era una coalizione di partiti che accoglieva nel proprio seno socialisti, comunisti, radicali e varie altre sigle della sinistra cilena, ma prima ancora che con gli Stati Uniti e con le falangi più reazionarie dell’esercito, prima ancora che con la più chiusa oligarchia, il governo si trovò a dover fronteggiare gli attacchi e le calunnie degli “avventuristi di sinistra”, manipoli di estremisti, formalmente vicini alle aree trotskista ed anarchica, ma che in realtà condividevano argomenti e strategie con l’alta borghesia.
Il caso non era nuovo né esclusivamente cileno, infatti l’indistinto mondialismo che accomuna (oggi come allora) i “nuovi sinistri” e gli interessi capitalistici ha come primi avversari i movimenti social-comunisti nazionali; nei loro confronti in tutto il mondo è stata portata avanti una lotta spietata, forsennata, diretta a screditare, spezzare e, ove possibile, distruggere i partiti operai e contadini legati all’URSS.
Trovo di grandissimo interesse, sia per la lucidità delle analisi che per la completezza dell’esposizione, un agile pamphlet uscito sul Kommunist n. 18 del 1971 dalla mano di un membro della segreteria del CC del PCUS intitolato “Il trotskismo strumento dell’anticomunismo”.1
L’autore, in queste infuocate ma lucide pagine, delinea la natura ed il ruolo dell’estremismo di sinistra in favore dei nemici delle forze progressiste offrendo diversi validi esempi attraverso tutto il pianeta; il radicalismo che se ne evince, al di là delle concrete esperienze politiche, dal punto di vista ideologico porta come conseguenza ad una rarefazione dei rapporti di forza imbrigliando il movimento in un soggettivismo avventurista senza uscita. Per quanto riguarda l’America Latina è d’uopo ritornare sulle parole di Fidel:
“La «IV internazionale»2 ha perpetrato…un vero crimine contro il movimento rivoluzionario con lo scopo di isolare questo movimento dal popolo, isolarlo dalle masse, screditarlo, contaminarlo con quanto di più insensato, rivoltante e nauseante che esiste attualmente nel campo della politica: il trotskismo…il trotskismo… si è trasformato in un volgare strumento dell’imperialismo e della reazione”. Tornando al Cile è proprio in questo frangente che l’opera di Ponomariov da il meglio si sé, arrivando a preconizzare con l’aiuto del proprio fiuto politico quanto sarebbe accaduto sulla Cordillera de la costa nel volgere di pochi mesi. É dall’analisi dei fenomeni di entrismo, dei quali era stato oggetto anche il CC del PC cileno, che si evince la linea di questo particolare “anticomunismo di sinistra”: gruppuscoli insediatisi ai vertici del partito che operano di concerto con le organizzazioni reazionarie di estrema destra, condividendo con esse tattiche, strumenti e, soprattutto, finalità; lo scopo è infatti quello di isolare dalle masse le forze “Unidad Popular” e la figura di Allende.
Divisioni e sabotaggi che porteranno all’indebolimento della compagine governativa proprio nel momento in cui si scatenerà l’offensiva politico-economica dei gruppi industriali e degli USA che si concluderà com’è tristemente noto.
Dalla Ligue communiste révolutionnaire a Red Flag, dai vari “scissionisti” di USA , Cile e Giappone a Il manifesto, l’azione curata quanto improvvisa degli estremisti di sinistra nel nome di parole d’ordine ultrarivoluzionarie non ha mai fatto a meno del benevolente appoggio dei grandi oligopolisti i quali si sono ben giovati, in Cile come altrove, della canalizzazione dell’isterismo di determinate fasce di borghesia piccola piccola contro la minaccia ,che non potevano confessarsi, dell’emancipazione proletaria, tentando dunque di procrastinarla quanto più possibile con la ricerca senza fine di una radicalità iperuranea.
“Voi siete uno strumento della provocazione imperialistica: questa è la vostra funzione obiettiva. E la vostra “psicologia” soggettiva è la psicologia del piccolo-borghese infuriato […]”.3
1. B. Ponomariov, Il trotskismo strumento dell’anticomunismo, Mosca, Novosti, 1972.
2. Organizzazione creata da Trotsky nel 1938.
3. V. Lenin, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol 27, pag. 29
preso da: http://www.opinione-pubblica.com/2015/09/18/il-ruolo-del-trotskismo-nella-vicenda-cilena/
domenica 6 settembre 2015
Chi è il Dalai Lama?
Vi propongo un articolo dello storico marxista Domenico Losurdo, per
fare cadere alcuni miti sul Dalai Lama, icona "nonviolenta" idolatrata
da una certa sinistra degenerata, ma in realtà pedina della CIA nel
progetto atlantico di balcanizzazione della Cina.
Chi è il Dalai Lama?
Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del campione della lotta di «liberazione del popolo tibetano».
Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per l’esattezza nella provincia di Amdo che nel 1935, l’anno della nascita, era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del 13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un convento, per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.
1. Un «paradiso» raccapricciante
Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di semi-ufficialità (si conclude con il «Messaggio» in cui il Dalai Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche i particolari più inquietanti. Nel 1946, Harrer incontra a Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si sono trasferiti ormai da molti anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia, essi non sono ancora divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese, continuano a parlare un dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che si esprime in tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un «interprete». Certo, la loro vita è cambiata radicalmente: «Era un grosso salto quello dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà». Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa separazione. In cambio, i genitori avevano potuto godere di una prodigiosa ascesa sociale. Siamo in presenza di un comportamento discutibile? Non sia mai detto. Harrer si affretta subito a sottolineare la «nobiltà innata» di questa coppia (p. 133): come potrebbe essere diversamente, dato che si tratta del padre e della madre del Dio-Re?
Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è chiamato a governare? Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce col riconoscerlo: «La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione». Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro il «potere» ma anche «chiunque lo metta in dubbio» (p. 76). Diamo ora uno sguardo ai rapporti sociali. Si direbbe che la merce più a buon mercato sia costituita dai servi (si tratta, in ultima analisi, di schiavi). Harrer descrive giulivo l’incontro con un alto funzionario: anche se non è un personaggio particolarmente importante, egli può comunque disporre di un «seguito di trenta servi e serve» (p. 56). Essi vengono sottoposti a fatiche non solo bestiali ma persino inutili: «Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale». Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma «il governo non voleva la ruota»; e, come sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione il potere della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli anni: «forse così era più felice» (pp. 159-160).
Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né lo sguardo. Ecco cosa avviene nel corso di una processione:
«Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama […] Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor […] Le donne non osavano respirare».
Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale:
«Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine al caos […] I monaci-soldato entrarono subito in azione […] All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla […] Ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni […] Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato!» (pp. 157-8).
Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto in un paragrafo dal titolo eloquente: «Un dio alza, benedicendo, la mano». L’unico momento in cui Harrer assume un atteggiamento critico si verifica allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del Tibet del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso circolano farmaci assai singolari: «spesso i lama ungono i loro pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene somministrata ai malati» (p. 194). Qui si ritrae perplesso anche il nostro autore devoto e bacchettone: se pure dal «Dio-Ragazzo» è stato «persuaso a credere nella reincarnazione» (p. 248), egli tuttavia non riesce a «giustificare il fatto che si bevesse l’urina del Buddha Vivente», e cioè del Dalai Lama. Solleva il problema con quest’ultimo, ma con scarsi risultati: il Dio-Re «da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava troppo». Ciò nonostante, il nostro autore, che si accontenta di poco, messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile: «In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l’urina delle vacche sacre» (p. 294).
A questo punto, Harrer può procedere senza più impacci nella sua opera di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà, esso è carico di violenza e non conosce neppure il principio della responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche trasversali e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche assai lieve o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i crimini considerati più gravi? «Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio» (p. 75). Ma anche reati minori, ad esempio «il gioco d’azzardo», possono essere puniti in modo spietato se commessi nei giorni di festività solenni: «i monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale» (pp. 153-3). La violenza più selvaggia caratterizza i rapporti non solo tra «semidei» e «esseri inferiori» ma anche tra le diverse frazioni della casta dominante: ai responsabili delle frequenti «rivoluzioni militari» e «guerre civili» che caratterizzano la storia del Tibet pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono fatti «cavare gli occhi con una spada» (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che «le punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità della popolazione» (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è ai suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: «Dopo un po’ che si è nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare un insetto soltanto perché mi infastidiva» (p. 183). In conclusione, siamo in presenza di un «paradiso» (p. 77). Oltre che di Harrer, questa è l’opinione anche del Dalai Lama che nel suo «Messaggio» finale si abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re: «ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice» (happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in «un paese libero».
2. «Invasione» del Tibet e tentativo di smembramento della Cina
Questo paese «felice» e «libero», questo «paradiso» viene trasformato in un inferno dall’«invasione» cinese. Le mistificazioni non hanno mai fine. Ha realmente senso parlare di «invasione»? Quale paese aveva riconosciuto l’«indipendenza» del Tibet e intratteneva con esso relazioni diplomatiche? In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un libro sulle relazioni Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano accludeva una mappa di per sé eloquente: con tutta chiarezza sia il Tibet che Taiwan vi figuravano quali parti integranti del grande paese asiatico, impegnato a porre fine una volta per sempre alle amputazioni territoriali imposte da un secolo di aggressioni colonialiste e imperialiste. Naturalmente, con l’avvento dei comunisti al potere, cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni falsificazione storica e geografica è lecita se essa consente di ridare slancio alla politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio e di avanzare cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.
E’ un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959. Con un cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a Pechino, il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una rivendicazione nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è di origine tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è la sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale ed estrema miseria del popolo, può coltivare i suoi raffinati gusti cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano «squisitezze di tutte le parti del mondo» (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti che, nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di ristrettezza provinciale: «le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall’Italia e l’ambra da Berlino e Königsberg» (p. 166). Ma mentre si sente affine all’aristocrazia parassitaria di ogni angolo del mondo, la casta dominante tibetana guarda ai suoi servi come ad una razza diversa e inferiore; sì, «la nobiltà ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango» (p. 191). Che senso ha allora parlare di lotta di indipendenza nazionale? Come possono esserci una nazione e una comunità nazionale se, per riconoscimento dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario, i «semidei» nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi, li bollano e li trattano quali «esseri inferiori» (pp. 170 e 168)?
D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama, allorché comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza? E’ il Grande Tibet, che avrebbe dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente detto, annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del territorio della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà multisecolare e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva e costituisce un elemento essenziale del progetto di smembramento di un paese che, a partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare i sogni di dominio mondiale accarezzati a Washington.
Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e gli «esseri inferiori» a cui chiaramente non prestano molta attenzione i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet pre-rivoluzionario è una «teocrazia» (p. 169): «un europeo difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio del Dio-Re» (p. 270). Sì, «il potere della gerarchia era illimitato» (p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto dell’esistenza: «la vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui unici interpreti sono i lama» (p. 182). Ovviamente, non c’è distinzione tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano «alle tibetane le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non abiurare» (p. 169); non era consentito convertirsi dal lamaismo all’Islam. Assieme ai rapporti matrimoniali anche la vita sessuale conosce una regolamentazione occhiuta: «per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del naso» (p. 191). E’ chiaro: pur di smembrare la Cina, Washington non esitava a montare in sella al cavallo fondamentalista del lamaismo integralista e del Dalai Lama.
Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto: il progetto secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora le dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’«autonomia». In realtà, il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di parole. Già, nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs, la rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di Melvyn C. Goldstein, si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti: nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente, c’è sempre spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla diffusione dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta da un numero di persone ben più elevato che nel Tibet pre-rivoluzionario. E’ da aggiungere che solo la distruzione dell’ordinamento castale e delle barriere che separavano i «semidei» dagli «esseri inferiori» ha reso possibile l’emergere su larga base di un’identità culturale e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il rovesciamento della verità.
Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario sviluppo economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al tenore di vita e alla durata media della vita cresce anche la coesione tra i diversi gruppi etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento dei matrimoni misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ciò diventa il nuovo cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un esempio clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29 novembre. Mi limito qui a citare il sommario: «L’integrazione tra questi due popoli è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul tetto del mondo». Chiaramente, il giornalista si è lasciato abbagliare dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza etnica e religiosa che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e secessionisti. Per comprenderne il carattere regressivo, basta ridare la parola al cronista che ha ispirato Hollywood. Nel Tibet pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi «si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via dicendo». Sono ben presenti anche i nepalesi: «Le loro famiglie rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare» (pp. 168-9). La maggiore «autonomia» che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet propriamente detto ovvero per il Grande Tibet, dovrebbe comportare anche la possibilità per il governo regionale di vietare i matrimoni misti e di realizzare una purezza etnica e culturale che non esisteva neppure prima del 1949?
3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e la denuncia del pericolo giallo
L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette di cogliere la sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese in corso. Com’è noto, nel ricercare le origini della razza «ariana» o «nordica» o «bianca», la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso guardato con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe preso le mosse la marcia trionfale della razza superiore. Nel 1939, al seguito di una spedizione delle SS l’austriaco Harrer giunge nell’India del nord (oggi Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet. Allorché incontra il Dalai Lama, subito lo riconosce e lo celebra come membro della superiore razza bianca: «La sua carnagione era molto più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella dell’aristocrazia tibetana» (p. 280). Del tutto estranei alla razza bianca sono invece i cinesi. Ecco perché è un evento straordinario la prima conversazione che Sua Santità ha con Harrer: egli si trovava «per la prima volta solo con un uomo bianco» (p. 277). In quanto sostanzialmente bianco il Dalai Lama non era certo inferiore agli «europei» ed era comunque «aperto a tutte le idee occidentali» (pp. 292 e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un «ministro-monaco» del Tibet sacro: «nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la religione e imporrà la sua egemonia al mondo» (p. 141). Non c’è dubbio: la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del libro che ha ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.
Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio in Italia. Fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono considerare Richard Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di dollari per celebrare la leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente misterioso. E’ doloroso ammetterlo ma bisogna prenderne atto: è ormai da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti cinematografici più torbidi.
Chi è il Dalai Lama?
Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del campione della lotta di «liberazione del popolo tibetano».
Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per l’esattezza nella provincia di Amdo che nel 1935, l’anno della nascita, era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del 13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un convento, per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.
1. Un «paradiso» raccapricciante
Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di semi-ufficialità (si conclude con il «Messaggio» in cui il Dalai Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche i particolari più inquietanti. Nel 1946, Harrer incontra a Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si sono trasferiti ormai da molti anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia, essi non sono ancora divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese, continuano a parlare un dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che si esprime in tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un «interprete». Certo, la loro vita è cambiata radicalmente: «Era un grosso salto quello dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà». Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa separazione. In cambio, i genitori avevano potuto godere di una prodigiosa ascesa sociale. Siamo in presenza di un comportamento discutibile? Non sia mai detto. Harrer si affretta subito a sottolineare la «nobiltà innata» di questa coppia (p. 133): come potrebbe essere diversamente, dato che si tratta del padre e della madre del Dio-Re?
Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è chiamato a governare? Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce col riconoscerlo: «La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione». Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro il «potere» ma anche «chiunque lo metta in dubbio» (p. 76). Diamo ora uno sguardo ai rapporti sociali. Si direbbe che la merce più a buon mercato sia costituita dai servi (si tratta, in ultima analisi, di schiavi). Harrer descrive giulivo l’incontro con un alto funzionario: anche se non è un personaggio particolarmente importante, egli può comunque disporre di un «seguito di trenta servi e serve» (p. 56). Essi vengono sottoposti a fatiche non solo bestiali ma persino inutili: «Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale». Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma «il governo non voleva la ruota»; e, come sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione il potere della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli anni: «forse così era più felice» (pp. 159-160).
Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né lo sguardo. Ecco cosa avviene nel corso di una processione:
«Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama […] Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor […] Le donne non osavano respirare».
Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale:
«Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine al caos […] I monaci-soldato entrarono subito in azione […] All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla […] Ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni […] Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato!» (pp. 157-8).
Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto in un paragrafo dal titolo eloquente: «Un dio alza, benedicendo, la mano». L’unico momento in cui Harrer assume un atteggiamento critico si verifica allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del Tibet del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso circolano farmaci assai singolari: «spesso i lama ungono i loro pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene somministrata ai malati» (p. 194). Qui si ritrae perplesso anche il nostro autore devoto e bacchettone: se pure dal «Dio-Ragazzo» è stato «persuaso a credere nella reincarnazione» (p. 248), egli tuttavia non riesce a «giustificare il fatto che si bevesse l’urina del Buddha Vivente», e cioè del Dalai Lama. Solleva il problema con quest’ultimo, ma con scarsi risultati: il Dio-Re «da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava troppo». Ciò nonostante, il nostro autore, che si accontenta di poco, messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile: «In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l’urina delle vacche sacre» (p. 294).
A questo punto, Harrer può procedere senza più impacci nella sua opera di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà, esso è carico di violenza e non conosce neppure il principio della responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche trasversali e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche assai lieve o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i crimini considerati più gravi? «Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio» (p. 75). Ma anche reati minori, ad esempio «il gioco d’azzardo», possono essere puniti in modo spietato se commessi nei giorni di festività solenni: «i monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale» (pp. 153-3). La violenza più selvaggia caratterizza i rapporti non solo tra «semidei» e «esseri inferiori» ma anche tra le diverse frazioni della casta dominante: ai responsabili delle frequenti «rivoluzioni militari» e «guerre civili» che caratterizzano la storia del Tibet pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono fatti «cavare gli occhi con una spada» (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che «le punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità della popolazione» (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è ai suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: «Dopo un po’ che si è nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare un insetto soltanto perché mi infastidiva» (p. 183). In conclusione, siamo in presenza di un «paradiso» (p. 77). Oltre che di Harrer, questa è l’opinione anche del Dalai Lama che nel suo «Messaggio» finale si abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re: «ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice» (happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in «un paese libero».
2. «Invasione» del Tibet e tentativo di smembramento della Cina
Questo paese «felice» e «libero», questo «paradiso» viene trasformato in un inferno dall’«invasione» cinese. Le mistificazioni non hanno mai fine. Ha realmente senso parlare di «invasione»? Quale paese aveva riconosciuto l’«indipendenza» del Tibet e intratteneva con esso relazioni diplomatiche? In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un libro sulle relazioni Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano accludeva una mappa di per sé eloquente: con tutta chiarezza sia il Tibet che Taiwan vi figuravano quali parti integranti del grande paese asiatico, impegnato a porre fine una volta per sempre alle amputazioni territoriali imposte da un secolo di aggressioni colonialiste e imperialiste. Naturalmente, con l’avvento dei comunisti al potere, cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni falsificazione storica e geografica è lecita se essa consente di ridare slancio alla politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio e di avanzare cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.
E’ un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959. Con un cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a Pechino, il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una rivendicazione nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è di origine tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è la sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale ed estrema miseria del popolo, può coltivare i suoi raffinati gusti cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano «squisitezze di tutte le parti del mondo» (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti che, nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di ristrettezza provinciale: «le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall’Italia e l’ambra da Berlino e Königsberg» (p. 166). Ma mentre si sente affine all’aristocrazia parassitaria di ogni angolo del mondo, la casta dominante tibetana guarda ai suoi servi come ad una razza diversa e inferiore; sì, «la nobiltà ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango» (p. 191). Che senso ha allora parlare di lotta di indipendenza nazionale? Come possono esserci una nazione e una comunità nazionale se, per riconoscimento dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario, i «semidei» nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi, li bollano e li trattano quali «esseri inferiori» (pp. 170 e 168)?
D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama, allorché comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza? E’ il Grande Tibet, che avrebbe dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente detto, annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del territorio della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà multisecolare e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva e costituisce un elemento essenziale del progetto di smembramento di un paese che, a partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare i sogni di dominio mondiale accarezzati a Washington.
Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e gli «esseri inferiori» a cui chiaramente non prestano molta attenzione i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet pre-rivoluzionario è una «teocrazia» (p. 169): «un europeo difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio del Dio-Re» (p. 270). Sì, «il potere della gerarchia era illimitato» (p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto dell’esistenza: «la vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui unici interpreti sono i lama» (p. 182). Ovviamente, non c’è distinzione tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano «alle tibetane le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non abiurare» (p. 169); non era consentito convertirsi dal lamaismo all’Islam. Assieme ai rapporti matrimoniali anche la vita sessuale conosce una regolamentazione occhiuta: «per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del naso» (p. 191). E’ chiaro: pur di smembrare la Cina, Washington non esitava a montare in sella al cavallo fondamentalista del lamaismo integralista e del Dalai Lama.
Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto: il progetto secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora le dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’«autonomia». In realtà, il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di parole. Già, nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs, la rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di Melvyn C. Goldstein, si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti: nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente, c’è sempre spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla diffusione dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta da un numero di persone ben più elevato che nel Tibet pre-rivoluzionario. E’ da aggiungere che solo la distruzione dell’ordinamento castale e delle barriere che separavano i «semidei» dagli «esseri inferiori» ha reso possibile l’emergere su larga base di un’identità culturale e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il rovesciamento della verità.
Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario sviluppo economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al tenore di vita e alla durata media della vita cresce anche la coesione tra i diversi gruppi etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento dei matrimoni misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ciò diventa il nuovo cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un esempio clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29 novembre. Mi limito qui a citare il sommario: «L’integrazione tra questi due popoli è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul tetto del mondo». Chiaramente, il giornalista si è lasciato abbagliare dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza etnica e religiosa che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e secessionisti. Per comprenderne il carattere regressivo, basta ridare la parola al cronista che ha ispirato Hollywood. Nel Tibet pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi «si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via dicendo». Sono ben presenti anche i nepalesi: «Le loro famiglie rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare» (pp. 168-9). La maggiore «autonomia» che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet propriamente detto ovvero per il Grande Tibet, dovrebbe comportare anche la possibilità per il governo regionale di vietare i matrimoni misti e di realizzare una purezza etnica e culturale che non esisteva neppure prima del 1949?
3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e la denuncia del pericolo giallo
L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette di cogliere la sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese in corso. Com’è noto, nel ricercare le origini della razza «ariana» o «nordica» o «bianca», la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso guardato con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe preso le mosse la marcia trionfale della razza superiore. Nel 1939, al seguito di una spedizione delle SS l’austriaco Harrer giunge nell’India del nord (oggi Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet. Allorché incontra il Dalai Lama, subito lo riconosce e lo celebra come membro della superiore razza bianca: «La sua carnagione era molto più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella dell’aristocrazia tibetana» (p. 280). Del tutto estranei alla razza bianca sono invece i cinesi. Ecco perché è un evento straordinario la prima conversazione che Sua Santità ha con Harrer: egli si trovava «per la prima volta solo con un uomo bianco» (p. 277). In quanto sostanzialmente bianco il Dalai Lama non era certo inferiore agli «europei» ed era comunque «aperto a tutte le idee occidentali» (pp. 292 e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un «ministro-monaco» del Tibet sacro: «nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la religione e imporrà la sua egemonia al mondo» (p. 141). Non c’è dubbio: la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del libro che ha ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.
Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio in Italia. Fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono considerare Richard Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di dollari per celebrare la leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente misterioso. E’ doloroso ammetterlo ma bisogna prenderne atto: è ormai da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti cinematografici più torbidi.
Il neoliberismo di Marine Le Pen e la sua lunga marcia verso Israele
Vi propongo questo ottimo articolo di Stefano Zecchinelli, ripreso dal sito linterferenza.info, che parla dell'ingannevole sovranismo delle destre post-fasciste e del filo-sionismo della Le Pen.
Il neoliberismo di Marine Le Pen e la sua lunga marcia verso Israele
1)L’affermazione politica del Front Nazional e la
diffusa fascinazione che sta esercitando questa forza politica su molti
settori popolari, mi spinge a riprendere alcune mie lontane riflessioni
riguardanti questa organizzazione di estrema destra, neo-liberista e,
come vedremo, filo-sionista. Mi accingo, dunque, ad analizzare gli
stretti rapporti che intercorrono fra neofascismo e sionismo e fra la
destra post-neo-fascista ed Israele. L’articolo pubblicato su questo
giornale http://www.linterferenza.info/contributi/lestrema-destra-neofascista-manovalanza-degli-usa-e-di-israele/
si propone di inquadrare ideologicamente la destra postfascista
all’interno del più vasto campo della ideologia neoconservatrice Usa.
Proprio a partire da questo assunto vedremo come il progetto imperialistico di Marine Le Pen sia funzionale ai progetti imperialistici israeliani che troverebbero nella Francia neocolonialista un valido appoggio. I lavori di ricerca che propongo all’attenzione dei lettori, infatti, hanno una comune radice: individuando nell’ “islamofobia” l’elemento che accomuna il neofascismo tradizionale e molte organizzazioni della destra radicale filo statunitensi e filoisraeliane.
Il caso del Front National è eloquente ma prima di tutto è importante dimostrare che questa organizzazione non ha nulla di progressista per quanto riguarda il suo programma politico ed economico.
Per dimostrare l’estraneità della Le Pen a qualsiasi autentica critica del capitalismo spenderò qualche parola sul “sovranismo di destra” che caratterizza questa organizzazione, prodotto diretto del neofascismo, anche se bisogna evitare semplificazioni fuorvianti che ci porterebbero fuori strada..
Parto quindi da un discorso pronunciato nel 2011 proprio dalla signora Marine Le Pen che dice: ‘’ Oggi non abbiamo più il controllo delle nostre frontiere perchè, dopo aver soppresso le nostre frontiere nazionali, abbiamo ceduto l’integrità territoriale francese ed europea ad un organismo europeo denominato Frontex. E siccome ho appena parlato di anonimato, faccio una domanda : I francesi sanno cosa sia il ’Frontex’? No, non lo sanno di certo’’. Il nazionalismo, ogniqualvolta si è spostato a destra ( per poi restarci definitivamente) ha preso in esame, solo ed esclusivamente, questioni di confine ( Istria, Dalmazia, Trieste, ecc … ) ma mai di sovranità concepita come controllo e gestione delle risorse da parte di un governo popolare.
Fedele alla tradizione delle destre ( per loro stessa natura colonialistiche ed anti-popolari ) Marine Le Pen parla di sovranità ponendo il problema del controllo delle frontiere. E’ bene entrare nel merito dato che c’è molta confusione. Come prima cosa, chi vuole inquadrare il problema, deve mettersi in testa che le destre europee e occidentali non possono avere nessun titolo nel porre la questione della sovranità nazionale/popolare, intesa come controllo e gestione democratica e popolare delle risorse (naturali ed umane) di un territorio o di uno stato, per la semplice ragione che sono sempre state in prima fila nel portare avanti politiche colonialiste e imperialiste finalizzate a sfruttare i popoli, ad espropriarli delle risorse naturali e ad imporre con la forza regimi coloniali, infischiandosene completamente di quella sovranità che esse per prime calpestavano (questo vale per tutti i paesi europei, compreso l’imperialismo straccione italiano ).
Non è un caso che la Le Pen celebri De Gaulle, il più lucido esponente dell’imperialismo francese, in questo modo: ‘’ Questi bei signori, per così dire illuminati, si sono forse dimenticati che la Francia è stata definita nella sua storia la «grande nazione» e che il genio del suo popolo l’ha fatta risplendere nel mondo intero? Bisogna forse ricordare loro che durante i secoli, il nostro Paese ha gestito l’intera emissione della propria moneta nazionale con il più grande beneficio per la sua economia e la sua prosperità? Si sono forse dimenticati che alla fine della guerra, c’è stata l’indipendente determinazione del Generale de Gaulle di rifiutare di vedersi imporre una valuta USA che i liberatori americani avevano importato insieme ai loro mezzi militari?’’
Certo, è proprio così, se si sostiene l’idea di un imperialismo francese (e quello di De Gaulle fu il più coerente tentativo di creare un polo imperialistico europeo) bisogna necessariamente provare a svincolarsi dall’imperialismo americano. Resta però un problema: l’anti-americanismo per essere coerente e conseguente deve trasformarsi anche in antimperialismo (e anti-occidentalismo) mentre, le destre, sono perfettamente integrate nella cultura colonialistica e imperialistica occidentale ( questo lo ha spiegato bene l’intellettuale palestinese Edward Said che non a caso ha parlato di “Occidentalismo” ). Questo fa si che l’anti-americanismo della Le Pen sia solo di facciata. La lady sionista ( questa vuole essere una provocazione, quindi il lettore la colga in pieno!) parla di sovranità monetaria tenendo per mano il padrone di Tel Aviv e strizzando l’occhio a quello di Washington. Se non capiamo questo non cogliamo la sostanza dell’intera questione..
Ricordiamo anche che De Gaulle per difendersi dagli anglo-americani si mise nelle mani della famiglia Rothschild, scegliendo come primo ministro il procuratore della Banca centrale, George Pompidou, accusato poi dai gaullisti di sinistra di essere un anglofilo. Frequentazioni poco socialiste, soprattutto per uno (De Gaulle) che in Algeria e in Indocina si è sporcato le mani (di sangue…).
In estrema sintesi ritengo che le caratteristiche delle estreme destre europee, con prospettive di governo, siano queste:
(1) Insistono sulla sovranità senza portare nessuna reale critica all’imperialismo; il loro slogan (quello con cui raccolgono consensi) è “fuori gli immigrati” e non certo ‘’fuori la Francia e l’Europa dalla NATO’’.
(2) Il Front National si è di fatto configurato come l’ultima spiaggia delle rachitiche borghesie nazionali francesi messe relativamente nell’angolo dal grande capitale internazionale. Oggi i bianchi colonizzano i bianchi e l’imperialismo Usa si è potuto appoggiare, anche in Europa, a borghesie compradore simili, per molti aspetti, ai commissari dei Paesi Coloniali della metà del ‘900.
Che dire? Da questo punto di vista Napolitano, Monti e Sarcozy, sono molto simili a Pinochet, Mobutu e Suharto. Non siamo in presenza della repressione del dissenso politico ma la funzione socio-economica è sostanzialmente identica.
2. Altri brevi rilievi: (1) l’islamofobia; (2) il passato glorioso della Francia a cui allude la signora Le Pen.
(1) Con l’islamofobia Marine Le Pen scimmiotta l’ideologia dei neo-conservatori Usa. Proporrei una duplice lettura: (1) l’ideologia neo-conservatrice nasce in Europa ( Spengler, Schmitt, Evola, ecc … ) e poi viene esportata negli Usa ( Leo Strauss, Novak, Pipes, ecc … ), quindi per comprendere la sottomissione dei gruppi dominanti europei a quelli d’oltre oceano bisogna considerare anche il riciclaggio delle vecchie destre, che da pan-europeiste si trasformano in pan-atlantiste; (2) una guerra imperialistica, combattuta con armi e tecnologia sofisticatissima, necessita di una guerra ideologica preventiva. Concetti come ‘’scontro di civiltà’’, ‘’supremazia del mondo occidentale’’, ‘’assolutizzazione del concetto di democrazia’’ e ‘’totalitarismo’’ si adattano benissimo non solo agli interessi dell’imperialismo USA ma anche a quelli dell’imperialismo francese. Le vie dell’imperialismo sono infinite e l’odio verso l’Islam di Madame Le Pen ha delle ragioni socio-economiche che vanno oltre la mediocrità culturale del soggetto in questione.
(2) La ‘’grande Francia’’, dice la Le Pen. E’ chiaro che alla radice c’è una ideologia social-sciovinistica tipica della piccola borghesia che peraltro ha avuto risvolti comici negli Stati Uniti (si pensi al “gingoismo”). La difesa dei particolarismi (cosa ben diversa dalla difesa della sovranità nazionale) si traduce sempre in una sorta di superiorità o di supremazia etnica (di carattere ‘’razziale’’ e nazionale). Ecco, dunque, servita su un piatto, la matrice ideologica dell’imperialismo.
Marine Le Pen ha ricevuto messaggi di stima da parte dalle centrali sioniste occidentali; il suo partito si rifà all’esperienza politica della Repubblica di Vichy e raccoglie reduci della organizzazione terroristica, filo-sionista e filo-americana, chiamata OAS ( legata all’Aginter Press e sotto il controllo diretto della CIA). La stessa potenza imperialistica Usa potrebbe ad esempio, in queste circostanze, utilizzare una “capo popolo” filo-colonialista per destabilizzare l’Algeria, paese nella lista nera della CIA. In parole povere, se in buona sostanza la Le Pen è un’ultima risorsa per la borghesia nazionale francese, è altrettanto certo che gli Usa non hanno nulla di cui temere da una sua eventuale affermazione politica che la portasse alla guida del paese.
I movimenti politici si giudicano partendo (1) dallo studio della loro genesi storica, (2) dalla analisi della natura di classe che questi hanno e (3) dalla individuazione della base sociale e del consenso ottenuto quindi – come direbbe Gramsci – dal loro blocco storico. Il lepenismo è un direttissimo prodotto del movimento reazionario di Poujade chiamato l’Unione della Difesa dei Commercianti e Artigiani (UDCA), un movimento che negli anni ‘50 difendeva la piccola borghesia sia contro il proletariato che contro “lo Stato vampiro”. Scusate ma questo antistatalismo non fu, in seguito, proprio lo slogan propagandistico di Ronald Reagan il quale, una volta, in televisione, rivolgendosi alla piccola borghesia americana, tagliò una banconota e disse:”lo Stato vi sta facendo questo”?. E non fu forse proprio il reaganismo l’anticamera di un nazional-neoliberismo che pose le basi per le aggressioni militariste dell’era Bush creandone le condizioni propizie? Madame Le Pen, come dicevamo, è l’ultima spiaggia per il colonialismo europeo; gli sono per ora sfavorevoli i rapporti di forza ma non è detto che la situazione non possa cambiare. Qualcuno obietterà:”Ma la Le Pen, se leggiamo con attenzione il suo programma, chiede uno Stato corporativo”. E’ possibile accettare in parte questa obiezione ed ammettere che il FN mescoli statalismo e neoliberismo (se è per questo anche il primo Mussolini) ma faccio anche notare come storicamente molti movimenti neocorporativisti divennero, al potere, neoliberisti. Un esempio su tutti è il movimento gremialista cileno di Guzman che divenne la lunga mano di Milton Friedman e degli Usa in Cile, dopo il golpe. Marine Le Pen ha forse mai rinnegato l’esperienza pinochetista? Ogni movimento politico deve fare sempre i conti con la storia, non si può transigere su questo; in caso contrario sarebbe una sorta di alieno politico e di certo il neofascismo non è tale.
Come giustamente obiettò Moreno Pasquinelli in risposta a Costanzo Preve: ‘’ Il sovranismo nazionale di per sé, se non è una convenzione semantica, è solo un concetto che, calato nella pratica, può assumere diverse forme, e alle forme corrispondono diversi contenuti. Il sovranismo può essere revanchista, reazionario, sciovinista, razzista, fascista e imperialista, come appunto quello del Fronte Nazionale francese, o può essere, al contrario, antimperialista, socialista, internazionalista e rivoluzionario. Tra i più accaniti sovranisti, ad esempio, si annoverano nord-americani e israeliani, di cui speriamo Preve non nutrirà alcuna ammirazione — e che non vorrà, per una tarda infatuazione di matrice idealistica dello Stato-nazione, porre sullo stesso piano dei patriottismi cubano o palestinese’’.
Il patriottismo è da salutare positivamente quando ha un suo coerente percorso di natura socialista e antimperialista. In virtù di ciò è da accogliere senz’altro positivamente lo spirito patriottico dei socialisti venezuelani e cubani, degli Hezbollah e di Hamas, ma mai di forze che hanno avuto legami con le destre fasciste e il colonialismo. Ogni autentica forza politica socialista e progressista europea deve innanzitutto recidere ogni legame con il passato imperialistico dello stato e della nazione di cui fa parte.
Il sovranismo della Le Pen (1) non prende in considerazione seriamente nessuna questione sociale interna ( quindi figuriamoci se può prendere in considerazione i diritti delle classi lavoratrici ), (2) come abbiamo già detto, è orientato verso un capitalismo corporativo senza, oltretutto, rinunciare al neo-liberismo.
In questo, la Le Pen al pari di Orban ( e forse, un domani, dei bonapartisti post-berlusconiani in Italia ), propone una ‘via nazionale al capitalismo neo-liberista’, svincolando, in parte ( in parte per i motivi suddetti ) la borghesia francese dai dettati degli Stati Uniti. Credo che dovremmo riflettere su questo aspetto: non solo la Le Pen si guarda bene dal proporre la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma si oppone solo alla libera circolazione delle persone ( come la Lega Nord, del resto ), permettendo ( e promuovendo ? ) la libera circolazione dei capitali. Il FN oltre ad essere filo colonialista e neoliberista ha profonde radici razziste. Cosa fomenta la signora Le Pen? Un ritorno in grande stile al razzismo antiarabo che è una delle principali vergogne d quella Grande Francia a cui lei fa riferimento. Chi simpatizza per la signora Le Pen non può continuare a decontestualizzare la critica all’Euro senza ricollegarla a tutta una serie di politiche sociali conseguenti. Come ignorare il razzismo del FN e non pensare che un partito politico non può scrollarsi dalla sera alla mattina di quella che è stata la sua ragion d’essere (e sulla quale ha da sempre raccolto consensi). E’ davvero ingenuo questo modo di procedere, è come pensare che sia possibile uno spostamento a sinistra di ex militanti del MSI ( Movimento Sociale Italiano ), una cosa che non sta né in cielo e né in terra.
Credo, oltretutto, che sbagli di grosso chi crede che il Front National sia strategicamente contro l’Unione Europea, e suggerisco a questi commentatori di operare una distinzione fra tattica e strategia politica, fra gli slogan, la propaganda e l’orientamento strategico di un movimento. Il FN è contro una UE che abbia come centrale di comando Londra, quindi propone una revisione degli ultimi passaggi di questo processo di integrazione – principalmente dal 1992 in poi – guardando con favore ad un Asse Parigi-Berlino. Per fare questo è necessario il consenso di una parte dell’oligarchia russa e soprattutto di Israele, la patria del sionismo più bellicoso.
Quindi che cos’è il FN ? Il FN è una organizzazione di destra anticomunista ( antipopolare e razzista ) che si oppone ad ogni forma di vero progresso sociale. La matrice ideologica è quella della destra statunitense e dei neocon: (1) supremazia bianca (2) antisocialismo e militarismo; (3) razzismo ed islamofobia. In cosa si differenzia la Le Pen da Bush ? Praticamente in nulla, ideologicamente parlando, solo che per garantire la ripresa della tradizione colonialista francese ( e qui sta la differenza ), Marine Le Pen deve defilarsi geopoliticamente e cercare l’appoggio dei settori più tradizionalisti della Russia.
Il sostegno di Israele al FN è cruciale ed è bene portare alcuni esempi.
Nel novembre del 2011 Marine Le Pen incontra a New York l’ambasciatore israeliano negli Usa, Ron Prosor. Nonostante Israele pubblicamente non tratti l’episodio con entusiasmo, sottobanco i rapporti crescono.
Nello stesso anno il vicepresidente, Louis Aliot, parte per Tel Aviv accompagnato dal sionista di ferro, un militarista likudista, Michel Thooris. Questo signore è un apologeta della politica simil-fascista di Netanyahu e giustificò l’aggressione imperialista contro il Libano nel 2006 ed il massacro perpetrato durante l’operazione “Piombo Fuso” nel 2008. I rapporti si stringono e Thooris sarà accanto la Le Pen nelle elezioni del 2012. Sempre Aliot rassicurò la lobby sionista che la Francia avrebbe appoggiato sempre Israele contro il mondo arabo e islamico e Marine Le Pen prese le difese dei picchiatori razzisti della Lega di difesa ebraica.
Non per essere ripetitivo ma il FN si accompagna in Europa ai seguenti partiti ultranazionalisti. Non è la prima volta che riportiamo un breve elenco delle destre europee ma è bene riprenderne visione:
Bloc Identitaire (Francia), British National Party (UK), CasaPound Italia (Italia), Dansk Folkeparti (Danimarca), English Defence League (UK), Front National (Francia), Partij voor de Vrijheid (PVV, Olanda), Die Freiheit (Germania), Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ, Austria), Fremskrittspartiet (Norvegia), Lega Nord (Italia), Perussuomalaiset (Finlandia), Sverigedemokraterna (Svezia) e Vlaams Belang (Belgio).
Cosa salta all’occhio dell’osservatore scrupoloso? In primis si mescolano organizzazioni neofasciste ( come i belgi di Vlaams Belang, il Bloc Identitaire francese e l’italiana CasaPound ) con organizzazioni della destra tradizionalista ma anche neoliberista ( es. la Lega Nord ). Ancora: tutte queste organizzazioni sono filoisraeliane e alcune fanno anche apologia del sionismo ( si pensi agli olandesi di Partij voor de Vrijheid il cui leader vanta pubblicamente stretti rapporti col Mossad ). La Lega Nord, in Italia, è l’anello di congiunzione fra la destra neoliberista e quella neofascista e non a caso Mario Borghezio vanta stretti rapporti sia con reduci stragisti di Avanguardia Nazionale (ha partecipato ad un recente convegno, nel Lazio, presieduto dal terrorista nero Stefano Delle Chiaie ) che con l’atlantica CasaPound. E’ in quest’ ottica – legami fra neofascismo, servizi segreti e simpatie per l’ideologia neoconservatrice Usa – che dobbiamo leggere i viaggi a Washington e a Tel Aviv di alcuni membri del FN? Eppure già i reduci dell’OAS che fondarono il FN furono appoggiati dal Mossad nella lotta contro i patrioti algerini e il “nasserismo”. In quali termini i rapporti si sono evoluti? Possiamo porre questa domanda: dall’appoggio occulto – servizi segreti e stragismo – si è passati alla progettualità politica? La Le Pen sarà la donna di Israele e della lobby sionista in Francia? Aspettiamo a dirlo ma le domande poste hanno un loro fondamento e mi pare che il cuore della questione sia proprio questa. Faccio una provocazione: il Front National potrebbe essere il volto legale dell’Aginter Press (organizzazione anticomunista che si infiltrò in molti movimenti degli anni ’70 ed etero diretta della CIA ). Certo, si tratta di affermazioni forti ma una seria riflessione politica non può escluderlo affatto.
Molti giornalisti hanno sottolineato l’appoggio di singoli intellettuali – come Alain Soral – che da filo-arabi hanno finito per appoggiare il FN. Ma gli intellettuali, spesso vanitosi e alla costante ricerca di visibilità (in Italia abbiamo numerosi esempi), sono spesso disposti a tutto pur di finire sulla copertina di un magazine di grido. Come, invece, ignorare un’ intera macchina burocratica che si è mossa in direzione di Tel Aviv ? Come fare finta di nulla e non vedere che si è costituita una vera e propria Internazionale islamofoba, con i partiti prima citati, e che il FN è ben incastonato in questo sistema? Credo che sia necessario capire che non è il singolo intellettuale e le sue fissazioni mentali a ‘fare un movimento’ ma la prospettiva complessiva – sia in termini di politica interna che estera – di questo, oltre alla sua capacità di riciclarsi, ossia la sua vocazione trasformistica ed opportunista. La prossimità fra il partito lepenista e l governo israeliano è evidente.
Fino ad ora l’elemento che abbiamo messo maggiormente a fuoco è il carattere neoliberista dell’ organizzazione politica guidata da Marine Le Pen. Chiediamoci cosa potrebbe succedere se quest’ultima applicasse il suo programma; che risultati potrebbero scaturirne? Cosa succederebbe se il FN governasse la Francia ?
Il risultato non potrebbe che essere una macelleria sociale interna unita ad una sempre crescente aggressività imperialistica della potenza francese. Un programma razzista ed anti-operaio che ha portato dentro il FN il peggio della società francese: dalle masse “plebeizzate” alla piccola borghesia arrabbiata, dai grandi capitalisti alle centrali sioniste,dalle attrici e pornostar in carriera ai bottegai. Uno schieramento di forze che riesce a coniugare spinte e pulsioni xenofobe e razziste con il sostegno al sionismo. La qual cosa non ha di certo preoccupato gli Usa dato che questa signora, prima delle elezioni del 2012, ‘’ È poi volata a New York ai primi di novembre e ha incontrato per 20 minuti l’Ambasciatore d’Israele all’Onu, Ron Prosor. E il quotidiano Haaretz le concede una possibilità, purché la condanna dell’anti-semitismo sia “chiara e forte”. A Palm Beach, Marine ha cenato con 200 repubblicani del Tea Party da Bill Diamond, finanziatore ebreo di Rudolph Giuliani. E per un soffio non è stata accolta da vip al Museo della Shoah a Washington. Che il secondo turno sia dietro l’angolo?’’.
Ci spiegassero i sostenitori del superamento della dicotomia destra/sinistra se questa signora è in grado di destabilizzare il sistema di comando che poggia sulla NATO e sull’Euro. Per quanto mi riguarda, non resta che seguire il monito di Virgilio che disse a Dante “non ti curar di lor ma guarda e passa”. Una cosa sola: di fronte ad un tentativo di svolta reazionaria e neoliberista le classi lavoratrici dovranno ricorrere ad ampie mobilitazioni.
Approfondimenti
1. Giorgio Galli in un suo lavoro sulla destra europea scrive : ‘’La ferita di Dien Bien Phu e di Algeri non si è mai rimarginata. Essa ha impedito, con i suoi riflessi sull’orgoglio gollista, un più rapido processo di unificazione dell’Europa nella fase di ascesa del riformismo. I legionari e i paras d’Indocina e di Algeri, i loro superstiti ufficiali ( i ‘soldats perdus’ di De Gaulle ) che hanno inseguito la disperata avventura dell’OAS, sono, sinora, gli ultimi eroi combattenti della destra radicale europea e nello stesso tempo coloro che le hanno lasciato in eredità passiva l’occasione mancata costituita dall’unificazione europea. I loro continuatori sono i combattenti americani nel Vietnam, di cui si tratterà nel capitalismo successivo’’ ( Giorgio Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Arnoldo Mondadori Editore ).
La destra radicale post-fascista, in funzione anti-comunista, diventò uno strumento provocatorio e stragista degli Usa: i neofascisti hanno appoggiato Israele contro i popoli arabi e la Rhodesia bianca contro i movimenti di liberazione nazionale africani. Hanno appoggiato il Sudafrica razzista ed esaltato tutti i colpi di stato neo-liberisti appoggiati dalla CIA.
La svolta filo-americana della destra pan-europeista ( da sempre apparentata con molte organizzazioni sioniste, si pensi all’accordo del regime nazista con la borghesia ebraica, nel 1935, a Praga ) riflette la debolezza delle classi dirigenti europee. Gli aspetti che mi sembrano importanti, in questo caso, sono due: (1) per mantenere il loro potere e contenere il movimento operaio quelle stesse calssi dirgenti non potevano che mettersi al servizio di Washington (quindi insozzarsi le mani per conto di un padrone molto più potente ); (2) un ruolo di primo piano venne affidato ai militari ed ai servizi segreti ( dai neofascisti definiti i ‘corpi sani dello stato’ ) i quali, in modo criminale, cercarono di difendere le manovre imperialistiche dei singoli paesi all’interno della NATO.
2. Il carattere filo-imperialista della Le Pen è confermato anche dal modo attraverso cui questa signora filo sionista ha salutato l’ aggressione imperialistica al Mali:
“Miei cari compatrioti della Francia metropolitana, d’oltremare e stabiliti all’estero, si impone un’illuminazione politica sull’offensiva lanciata dalla Francia contro i fondamentalisti islamici nel Mali. Sì, lo sapete, noi sosteniamo l’operazione francese. Perché è una risposta legittima alla richiesta del governo moderato di un paese amico, francofono e alleato storico della Francia. La Francia potenza mondiale, la Francia potenza d’equilibrio ha dei doveri particolari nel mondo, che si onorerà nell’interesse delle nazioni amiche e nel nostro interesse superiore quando la causa è giusta. È il caso questa volta. Tanto più che la Francia e il Mali sono legati da una cooperazione di difesa, cosa che rende del resto molto superficiali e inutili i dibattiti sul coinvolgimento o non della NATO o dell’Unione europea. La Francia è una grande potenza, che ha le capacità di effettuare autonomamente quando necessario, senza avere bisogno di essere necessariamente il vassallo di qualcuno. Se le coalizioni sono a volte necessarie, spetta alla Francia e solo ad essa determinare l’interesse o no della sua partecipazione. L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta. Mi fido dei nostri soldati coraggiosi e del nostro esercito per pervenirvi al più presto possibile. Permettetemi a questo punto un pensiero commosso e rattristato per le famiglie dei nostri soldati già scomparsi in questa operazione e per le vittime francesi del tentativo di liberazione del nostro ostaggio in Somalia. La loro morte non sarà stata inutile, ed è per la Francia che il combattimento sarà stato condotto con coraggio. Da questo intervento nel Mali dipende la sicurezza della regione, la sicurezza dei nostri connazionali e la sicurezza dell’Europa e la Francia, che non hanno alcun interesse a vedere lo svilupparsi un nuovo scomparto fondamentalista a migliaia di chilometri dai loro confini e che potrebbe, senza un intervento, diffondersi domani in numerosi altri paesi africani.”
Tutto ciò a discapito del diritto all’autodeterminazione del popolo del Mali che ha dimostrato, memore peraltro dei crimini del colonialismo francese, un forte sentimento anti-coloniale opponendosi, armi in pugno, all’aggressione neo-coloniale.
La Le Pen parla per bocca dei capitalisti francesi ma quando dice ‘’ L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta’’, non può che avere il plauso di Tel Aviv.
3. In questa intervista Le Pen padre, a dimostrazione del suo servilismo verso la CIA esalta Pinochet, e a comprova della sua fede fascista difende Franco. E’ l’emblema del neofascismo passato armi e bagagli dalla parte dell’imperialismo americano, cosa che, anche ora, i ‘fascisti euroasiatici’, hanno problemi a confutare e rinnegano con una certa vergogna, vergogna per il loro inglorioso ed oscuro passato. http://www.youtube.com/watch?v=zJ3-G78vQ-0
Ricordo anche, per concludere, che Jean Marie Le Pen fu paracadutista dell’esercito francese nelle guerre coloniali in Indocina, durante l’aggressione del ’56 a Suez ( aggressione sostenuta da Israele ) e prese parte alla Battaglia di Algeri contro il Fronte di liberazione nazionale algerino. Quanto ha influito tutto questo sulla formazione di Marine?
originale: http://www.linterferenza.info/esteri/il-neoliberismo-di-marine-le-pen-e-la-sua-lunga-marcia-verso-israele/
Proprio a partire da questo assunto vedremo come il progetto imperialistico di Marine Le Pen sia funzionale ai progetti imperialistici israeliani che troverebbero nella Francia neocolonialista un valido appoggio. I lavori di ricerca che propongo all’attenzione dei lettori, infatti, hanno una comune radice: individuando nell’ “islamofobia” l’elemento che accomuna il neofascismo tradizionale e molte organizzazioni della destra radicale filo statunitensi e filoisraeliane.
Il caso del Front National è eloquente ma prima di tutto è importante dimostrare che questa organizzazione non ha nulla di progressista per quanto riguarda il suo programma politico ed economico.
Per dimostrare l’estraneità della Le Pen a qualsiasi autentica critica del capitalismo spenderò qualche parola sul “sovranismo di destra” che caratterizza questa organizzazione, prodotto diretto del neofascismo, anche se bisogna evitare semplificazioni fuorvianti che ci porterebbero fuori strada..
Parto quindi da un discorso pronunciato nel 2011 proprio dalla signora Marine Le Pen che dice: ‘’ Oggi non abbiamo più il controllo delle nostre frontiere perchè, dopo aver soppresso le nostre frontiere nazionali, abbiamo ceduto l’integrità territoriale francese ed europea ad un organismo europeo denominato Frontex. E siccome ho appena parlato di anonimato, faccio una domanda : I francesi sanno cosa sia il ’Frontex’? No, non lo sanno di certo’’. Il nazionalismo, ogniqualvolta si è spostato a destra ( per poi restarci definitivamente) ha preso in esame, solo ed esclusivamente, questioni di confine ( Istria, Dalmazia, Trieste, ecc … ) ma mai di sovranità concepita come controllo e gestione delle risorse da parte di un governo popolare.
Fedele alla tradizione delle destre ( per loro stessa natura colonialistiche ed anti-popolari ) Marine Le Pen parla di sovranità ponendo il problema del controllo delle frontiere. E’ bene entrare nel merito dato che c’è molta confusione. Come prima cosa, chi vuole inquadrare il problema, deve mettersi in testa che le destre europee e occidentali non possono avere nessun titolo nel porre la questione della sovranità nazionale/popolare, intesa come controllo e gestione democratica e popolare delle risorse (naturali ed umane) di un territorio o di uno stato, per la semplice ragione che sono sempre state in prima fila nel portare avanti politiche colonialiste e imperialiste finalizzate a sfruttare i popoli, ad espropriarli delle risorse naturali e ad imporre con la forza regimi coloniali, infischiandosene completamente di quella sovranità che esse per prime calpestavano (questo vale per tutti i paesi europei, compreso l’imperialismo straccione italiano ).
Non è un caso che la Le Pen celebri De Gaulle, il più lucido esponente dell’imperialismo francese, in questo modo: ‘’ Questi bei signori, per così dire illuminati, si sono forse dimenticati che la Francia è stata definita nella sua storia la «grande nazione» e che il genio del suo popolo l’ha fatta risplendere nel mondo intero? Bisogna forse ricordare loro che durante i secoli, il nostro Paese ha gestito l’intera emissione della propria moneta nazionale con il più grande beneficio per la sua economia e la sua prosperità? Si sono forse dimenticati che alla fine della guerra, c’è stata l’indipendente determinazione del Generale de Gaulle di rifiutare di vedersi imporre una valuta USA che i liberatori americani avevano importato insieme ai loro mezzi militari?’’
Certo, è proprio così, se si sostiene l’idea di un imperialismo francese (e quello di De Gaulle fu il più coerente tentativo di creare un polo imperialistico europeo) bisogna necessariamente provare a svincolarsi dall’imperialismo americano. Resta però un problema: l’anti-americanismo per essere coerente e conseguente deve trasformarsi anche in antimperialismo (e anti-occidentalismo) mentre, le destre, sono perfettamente integrate nella cultura colonialistica e imperialistica occidentale ( questo lo ha spiegato bene l’intellettuale palestinese Edward Said che non a caso ha parlato di “Occidentalismo” ). Questo fa si che l’anti-americanismo della Le Pen sia solo di facciata. La lady sionista ( questa vuole essere una provocazione, quindi il lettore la colga in pieno!) parla di sovranità monetaria tenendo per mano il padrone di Tel Aviv e strizzando l’occhio a quello di Washington. Se non capiamo questo non cogliamo la sostanza dell’intera questione..
Ricordiamo anche che De Gaulle per difendersi dagli anglo-americani si mise nelle mani della famiglia Rothschild, scegliendo come primo ministro il procuratore della Banca centrale, George Pompidou, accusato poi dai gaullisti di sinistra di essere un anglofilo. Frequentazioni poco socialiste, soprattutto per uno (De Gaulle) che in Algeria e in Indocina si è sporcato le mani (di sangue…).
In estrema sintesi ritengo che le caratteristiche delle estreme destre europee, con prospettive di governo, siano queste:
(1) Insistono sulla sovranità senza portare nessuna reale critica all’imperialismo; il loro slogan (quello con cui raccolgono consensi) è “fuori gli immigrati” e non certo ‘’fuori la Francia e l’Europa dalla NATO’’.
(2) Il Front National si è di fatto configurato come l’ultima spiaggia delle rachitiche borghesie nazionali francesi messe relativamente nell’angolo dal grande capitale internazionale. Oggi i bianchi colonizzano i bianchi e l’imperialismo Usa si è potuto appoggiare, anche in Europa, a borghesie compradore simili, per molti aspetti, ai commissari dei Paesi Coloniali della metà del ‘900.
Che dire? Da questo punto di vista Napolitano, Monti e Sarcozy, sono molto simili a Pinochet, Mobutu e Suharto. Non siamo in presenza della repressione del dissenso politico ma la funzione socio-economica è sostanzialmente identica.
2. Altri brevi rilievi: (1) l’islamofobia; (2) il passato glorioso della Francia a cui allude la signora Le Pen.
(1) Con l’islamofobia Marine Le Pen scimmiotta l’ideologia dei neo-conservatori Usa. Proporrei una duplice lettura: (1) l’ideologia neo-conservatrice nasce in Europa ( Spengler, Schmitt, Evola, ecc … ) e poi viene esportata negli Usa ( Leo Strauss, Novak, Pipes, ecc … ), quindi per comprendere la sottomissione dei gruppi dominanti europei a quelli d’oltre oceano bisogna considerare anche il riciclaggio delle vecchie destre, che da pan-europeiste si trasformano in pan-atlantiste; (2) una guerra imperialistica, combattuta con armi e tecnologia sofisticatissima, necessita di una guerra ideologica preventiva. Concetti come ‘’scontro di civiltà’’, ‘’supremazia del mondo occidentale’’, ‘’assolutizzazione del concetto di democrazia’’ e ‘’totalitarismo’’ si adattano benissimo non solo agli interessi dell’imperialismo USA ma anche a quelli dell’imperialismo francese. Le vie dell’imperialismo sono infinite e l’odio verso l’Islam di Madame Le Pen ha delle ragioni socio-economiche che vanno oltre la mediocrità culturale del soggetto in questione.
(2) La ‘’grande Francia’’, dice la Le Pen. E’ chiaro che alla radice c’è una ideologia social-sciovinistica tipica della piccola borghesia che peraltro ha avuto risvolti comici negli Stati Uniti (si pensi al “gingoismo”). La difesa dei particolarismi (cosa ben diversa dalla difesa della sovranità nazionale) si traduce sempre in una sorta di superiorità o di supremazia etnica (di carattere ‘’razziale’’ e nazionale). Ecco, dunque, servita su un piatto, la matrice ideologica dell’imperialismo.
Marine Le Pen ha ricevuto messaggi di stima da parte dalle centrali sioniste occidentali; il suo partito si rifà all’esperienza politica della Repubblica di Vichy e raccoglie reduci della organizzazione terroristica, filo-sionista e filo-americana, chiamata OAS ( legata all’Aginter Press e sotto il controllo diretto della CIA). La stessa potenza imperialistica Usa potrebbe ad esempio, in queste circostanze, utilizzare una “capo popolo” filo-colonialista per destabilizzare l’Algeria, paese nella lista nera della CIA. In parole povere, se in buona sostanza la Le Pen è un’ultima risorsa per la borghesia nazionale francese, è altrettanto certo che gli Usa non hanno nulla di cui temere da una sua eventuale affermazione politica che la portasse alla guida del paese.
I movimenti politici si giudicano partendo (1) dallo studio della loro genesi storica, (2) dalla analisi della natura di classe che questi hanno e (3) dalla individuazione della base sociale e del consenso ottenuto quindi – come direbbe Gramsci – dal loro blocco storico. Il lepenismo è un direttissimo prodotto del movimento reazionario di Poujade chiamato l’Unione della Difesa dei Commercianti e Artigiani (UDCA), un movimento che negli anni ‘50 difendeva la piccola borghesia sia contro il proletariato che contro “lo Stato vampiro”. Scusate ma questo antistatalismo non fu, in seguito, proprio lo slogan propagandistico di Ronald Reagan il quale, una volta, in televisione, rivolgendosi alla piccola borghesia americana, tagliò una banconota e disse:”lo Stato vi sta facendo questo”?. E non fu forse proprio il reaganismo l’anticamera di un nazional-neoliberismo che pose le basi per le aggressioni militariste dell’era Bush creandone le condizioni propizie? Madame Le Pen, come dicevamo, è l’ultima spiaggia per il colonialismo europeo; gli sono per ora sfavorevoli i rapporti di forza ma non è detto che la situazione non possa cambiare. Qualcuno obietterà:”Ma la Le Pen, se leggiamo con attenzione il suo programma, chiede uno Stato corporativo”. E’ possibile accettare in parte questa obiezione ed ammettere che il FN mescoli statalismo e neoliberismo (se è per questo anche il primo Mussolini) ma faccio anche notare come storicamente molti movimenti neocorporativisti divennero, al potere, neoliberisti. Un esempio su tutti è il movimento gremialista cileno di Guzman che divenne la lunga mano di Milton Friedman e degli Usa in Cile, dopo il golpe. Marine Le Pen ha forse mai rinnegato l’esperienza pinochetista? Ogni movimento politico deve fare sempre i conti con la storia, non si può transigere su questo; in caso contrario sarebbe una sorta di alieno politico e di certo il neofascismo non è tale.
Come giustamente obiettò Moreno Pasquinelli in risposta a Costanzo Preve: ‘’ Il sovranismo nazionale di per sé, se non è una convenzione semantica, è solo un concetto che, calato nella pratica, può assumere diverse forme, e alle forme corrispondono diversi contenuti. Il sovranismo può essere revanchista, reazionario, sciovinista, razzista, fascista e imperialista, come appunto quello del Fronte Nazionale francese, o può essere, al contrario, antimperialista, socialista, internazionalista e rivoluzionario. Tra i più accaniti sovranisti, ad esempio, si annoverano nord-americani e israeliani, di cui speriamo Preve non nutrirà alcuna ammirazione — e che non vorrà, per una tarda infatuazione di matrice idealistica dello Stato-nazione, porre sullo stesso piano dei patriottismi cubano o palestinese’’.
Il patriottismo è da salutare positivamente quando ha un suo coerente percorso di natura socialista e antimperialista. In virtù di ciò è da accogliere senz’altro positivamente lo spirito patriottico dei socialisti venezuelani e cubani, degli Hezbollah e di Hamas, ma mai di forze che hanno avuto legami con le destre fasciste e il colonialismo. Ogni autentica forza politica socialista e progressista europea deve innanzitutto recidere ogni legame con il passato imperialistico dello stato e della nazione di cui fa parte.
Il sovranismo della Le Pen (1) non prende in considerazione seriamente nessuna questione sociale interna ( quindi figuriamoci se può prendere in considerazione i diritti delle classi lavoratrici ), (2) come abbiamo già detto, è orientato verso un capitalismo corporativo senza, oltretutto, rinunciare al neo-liberismo.
In questo, la Le Pen al pari di Orban ( e forse, un domani, dei bonapartisti post-berlusconiani in Italia ), propone una ‘via nazionale al capitalismo neo-liberista’, svincolando, in parte ( in parte per i motivi suddetti ) la borghesia francese dai dettati degli Stati Uniti. Credo che dovremmo riflettere su questo aspetto: non solo la Le Pen si guarda bene dal proporre la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma si oppone solo alla libera circolazione delle persone ( come la Lega Nord, del resto ), permettendo ( e promuovendo ? ) la libera circolazione dei capitali. Il FN oltre ad essere filo colonialista e neoliberista ha profonde radici razziste. Cosa fomenta la signora Le Pen? Un ritorno in grande stile al razzismo antiarabo che è una delle principali vergogne d quella Grande Francia a cui lei fa riferimento. Chi simpatizza per la signora Le Pen non può continuare a decontestualizzare la critica all’Euro senza ricollegarla a tutta una serie di politiche sociali conseguenti. Come ignorare il razzismo del FN e non pensare che un partito politico non può scrollarsi dalla sera alla mattina di quella che è stata la sua ragion d’essere (e sulla quale ha da sempre raccolto consensi). E’ davvero ingenuo questo modo di procedere, è come pensare che sia possibile uno spostamento a sinistra di ex militanti del MSI ( Movimento Sociale Italiano ), una cosa che non sta né in cielo e né in terra.
Credo, oltretutto, che sbagli di grosso chi crede che il Front National sia strategicamente contro l’Unione Europea, e suggerisco a questi commentatori di operare una distinzione fra tattica e strategia politica, fra gli slogan, la propaganda e l’orientamento strategico di un movimento. Il FN è contro una UE che abbia come centrale di comando Londra, quindi propone una revisione degli ultimi passaggi di questo processo di integrazione – principalmente dal 1992 in poi – guardando con favore ad un Asse Parigi-Berlino. Per fare questo è necessario il consenso di una parte dell’oligarchia russa e soprattutto di Israele, la patria del sionismo più bellicoso.
Quindi che cos’è il FN ? Il FN è una organizzazione di destra anticomunista ( antipopolare e razzista ) che si oppone ad ogni forma di vero progresso sociale. La matrice ideologica è quella della destra statunitense e dei neocon: (1) supremazia bianca (2) antisocialismo e militarismo; (3) razzismo ed islamofobia. In cosa si differenzia la Le Pen da Bush ? Praticamente in nulla, ideologicamente parlando, solo che per garantire la ripresa della tradizione colonialista francese ( e qui sta la differenza ), Marine Le Pen deve defilarsi geopoliticamente e cercare l’appoggio dei settori più tradizionalisti della Russia.
Il sostegno di Israele al FN è cruciale ed è bene portare alcuni esempi.
Nel novembre del 2011 Marine Le Pen incontra a New York l’ambasciatore israeliano negli Usa, Ron Prosor. Nonostante Israele pubblicamente non tratti l’episodio con entusiasmo, sottobanco i rapporti crescono.
Nello stesso anno il vicepresidente, Louis Aliot, parte per Tel Aviv accompagnato dal sionista di ferro, un militarista likudista, Michel Thooris. Questo signore è un apologeta della politica simil-fascista di Netanyahu e giustificò l’aggressione imperialista contro il Libano nel 2006 ed il massacro perpetrato durante l’operazione “Piombo Fuso” nel 2008. I rapporti si stringono e Thooris sarà accanto la Le Pen nelle elezioni del 2012. Sempre Aliot rassicurò la lobby sionista che la Francia avrebbe appoggiato sempre Israele contro il mondo arabo e islamico e Marine Le Pen prese le difese dei picchiatori razzisti della Lega di difesa ebraica.
Non per essere ripetitivo ma il FN si accompagna in Europa ai seguenti partiti ultranazionalisti. Non è la prima volta che riportiamo un breve elenco delle destre europee ma è bene riprenderne visione:
Bloc Identitaire (Francia), British National Party (UK), CasaPound Italia (Italia), Dansk Folkeparti (Danimarca), English Defence League (UK), Front National (Francia), Partij voor de Vrijheid (PVV, Olanda), Die Freiheit (Germania), Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ, Austria), Fremskrittspartiet (Norvegia), Lega Nord (Italia), Perussuomalaiset (Finlandia), Sverigedemokraterna (Svezia) e Vlaams Belang (Belgio).
Cosa salta all’occhio dell’osservatore scrupoloso? In primis si mescolano organizzazioni neofasciste ( come i belgi di Vlaams Belang, il Bloc Identitaire francese e l’italiana CasaPound ) con organizzazioni della destra tradizionalista ma anche neoliberista ( es. la Lega Nord ). Ancora: tutte queste organizzazioni sono filoisraeliane e alcune fanno anche apologia del sionismo ( si pensi agli olandesi di Partij voor de Vrijheid il cui leader vanta pubblicamente stretti rapporti col Mossad ). La Lega Nord, in Italia, è l’anello di congiunzione fra la destra neoliberista e quella neofascista e non a caso Mario Borghezio vanta stretti rapporti sia con reduci stragisti di Avanguardia Nazionale (ha partecipato ad un recente convegno, nel Lazio, presieduto dal terrorista nero Stefano Delle Chiaie ) che con l’atlantica CasaPound. E’ in quest’ ottica – legami fra neofascismo, servizi segreti e simpatie per l’ideologia neoconservatrice Usa – che dobbiamo leggere i viaggi a Washington e a Tel Aviv di alcuni membri del FN? Eppure già i reduci dell’OAS che fondarono il FN furono appoggiati dal Mossad nella lotta contro i patrioti algerini e il “nasserismo”. In quali termini i rapporti si sono evoluti? Possiamo porre questa domanda: dall’appoggio occulto – servizi segreti e stragismo – si è passati alla progettualità politica? La Le Pen sarà la donna di Israele e della lobby sionista in Francia? Aspettiamo a dirlo ma le domande poste hanno un loro fondamento e mi pare che il cuore della questione sia proprio questa. Faccio una provocazione: il Front National potrebbe essere il volto legale dell’Aginter Press (organizzazione anticomunista che si infiltrò in molti movimenti degli anni ’70 ed etero diretta della CIA ). Certo, si tratta di affermazioni forti ma una seria riflessione politica non può escluderlo affatto.
Molti giornalisti hanno sottolineato l’appoggio di singoli intellettuali – come Alain Soral – che da filo-arabi hanno finito per appoggiare il FN. Ma gli intellettuali, spesso vanitosi e alla costante ricerca di visibilità (in Italia abbiamo numerosi esempi), sono spesso disposti a tutto pur di finire sulla copertina di un magazine di grido. Come, invece, ignorare un’ intera macchina burocratica che si è mossa in direzione di Tel Aviv ? Come fare finta di nulla e non vedere che si è costituita una vera e propria Internazionale islamofoba, con i partiti prima citati, e che il FN è ben incastonato in questo sistema? Credo che sia necessario capire che non è il singolo intellettuale e le sue fissazioni mentali a ‘fare un movimento’ ma la prospettiva complessiva – sia in termini di politica interna che estera – di questo, oltre alla sua capacità di riciclarsi, ossia la sua vocazione trasformistica ed opportunista. La prossimità fra il partito lepenista e l governo israeliano è evidente.
Fino ad ora l’elemento che abbiamo messo maggiormente a fuoco è il carattere neoliberista dell’ organizzazione politica guidata da Marine Le Pen. Chiediamoci cosa potrebbe succedere se quest’ultima applicasse il suo programma; che risultati potrebbero scaturirne? Cosa succederebbe se il FN governasse la Francia ?
Il risultato non potrebbe che essere una macelleria sociale interna unita ad una sempre crescente aggressività imperialistica della potenza francese. Un programma razzista ed anti-operaio che ha portato dentro il FN il peggio della società francese: dalle masse “plebeizzate” alla piccola borghesia arrabbiata, dai grandi capitalisti alle centrali sioniste,dalle attrici e pornostar in carriera ai bottegai. Uno schieramento di forze che riesce a coniugare spinte e pulsioni xenofobe e razziste con il sostegno al sionismo. La qual cosa non ha di certo preoccupato gli Usa dato che questa signora, prima delle elezioni del 2012, ‘’ È poi volata a New York ai primi di novembre e ha incontrato per 20 minuti l’Ambasciatore d’Israele all’Onu, Ron Prosor. E il quotidiano Haaretz le concede una possibilità, purché la condanna dell’anti-semitismo sia “chiara e forte”. A Palm Beach, Marine ha cenato con 200 repubblicani del Tea Party da Bill Diamond, finanziatore ebreo di Rudolph Giuliani. E per un soffio non è stata accolta da vip al Museo della Shoah a Washington. Che il secondo turno sia dietro l’angolo?’’.
Ci spiegassero i sostenitori del superamento della dicotomia destra/sinistra se questa signora è in grado di destabilizzare il sistema di comando che poggia sulla NATO e sull’Euro. Per quanto mi riguarda, non resta che seguire il monito di Virgilio che disse a Dante “non ti curar di lor ma guarda e passa”. Una cosa sola: di fronte ad un tentativo di svolta reazionaria e neoliberista le classi lavoratrici dovranno ricorrere ad ampie mobilitazioni.
Approfondimenti
1. Giorgio Galli in un suo lavoro sulla destra europea scrive : ‘’La ferita di Dien Bien Phu e di Algeri non si è mai rimarginata. Essa ha impedito, con i suoi riflessi sull’orgoglio gollista, un più rapido processo di unificazione dell’Europa nella fase di ascesa del riformismo. I legionari e i paras d’Indocina e di Algeri, i loro superstiti ufficiali ( i ‘soldats perdus’ di De Gaulle ) che hanno inseguito la disperata avventura dell’OAS, sono, sinora, gli ultimi eroi combattenti della destra radicale europea e nello stesso tempo coloro che le hanno lasciato in eredità passiva l’occasione mancata costituita dall’unificazione europea. I loro continuatori sono i combattenti americani nel Vietnam, di cui si tratterà nel capitalismo successivo’’ ( Giorgio Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Arnoldo Mondadori Editore ).
La destra radicale post-fascista, in funzione anti-comunista, diventò uno strumento provocatorio e stragista degli Usa: i neofascisti hanno appoggiato Israele contro i popoli arabi e la Rhodesia bianca contro i movimenti di liberazione nazionale africani. Hanno appoggiato il Sudafrica razzista ed esaltato tutti i colpi di stato neo-liberisti appoggiati dalla CIA.
La svolta filo-americana della destra pan-europeista ( da sempre apparentata con molte organizzazioni sioniste, si pensi all’accordo del regime nazista con la borghesia ebraica, nel 1935, a Praga ) riflette la debolezza delle classi dirigenti europee. Gli aspetti che mi sembrano importanti, in questo caso, sono due: (1) per mantenere il loro potere e contenere il movimento operaio quelle stesse calssi dirgenti non potevano che mettersi al servizio di Washington (quindi insozzarsi le mani per conto di un padrone molto più potente ); (2) un ruolo di primo piano venne affidato ai militari ed ai servizi segreti ( dai neofascisti definiti i ‘corpi sani dello stato’ ) i quali, in modo criminale, cercarono di difendere le manovre imperialistiche dei singoli paesi all’interno della NATO.
2. Il carattere filo-imperialista della Le Pen è confermato anche dal modo attraverso cui questa signora filo sionista ha salutato l’ aggressione imperialistica al Mali:
“Miei cari compatrioti della Francia metropolitana, d’oltremare e stabiliti all’estero, si impone un’illuminazione politica sull’offensiva lanciata dalla Francia contro i fondamentalisti islamici nel Mali. Sì, lo sapete, noi sosteniamo l’operazione francese. Perché è una risposta legittima alla richiesta del governo moderato di un paese amico, francofono e alleato storico della Francia. La Francia potenza mondiale, la Francia potenza d’equilibrio ha dei doveri particolari nel mondo, che si onorerà nell’interesse delle nazioni amiche e nel nostro interesse superiore quando la causa è giusta. È il caso questa volta. Tanto più che la Francia e il Mali sono legati da una cooperazione di difesa, cosa che rende del resto molto superficiali e inutili i dibattiti sul coinvolgimento o non della NATO o dell’Unione europea. La Francia è una grande potenza, che ha le capacità di effettuare autonomamente quando necessario, senza avere bisogno di essere necessariamente il vassallo di qualcuno. Se le coalizioni sono a volte necessarie, spetta alla Francia e solo ad essa determinare l’interesse o no della sua partecipazione. L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta. Mi fido dei nostri soldati coraggiosi e del nostro esercito per pervenirvi al più presto possibile. Permettetemi a questo punto un pensiero commosso e rattristato per le famiglie dei nostri soldati già scomparsi in questa operazione e per le vittime francesi del tentativo di liberazione del nostro ostaggio in Somalia. La loro morte non sarà stata inutile, ed è per la Francia che il combattimento sarà stato condotto con coraggio. Da questo intervento nel Mali dipende la sicurezza della regione, la sicurezza dei nostri connazionali e la sicurezza dell’Europa e la Francia, che non hanno alcun interesse a vedere lo svilupparsi un nuovo scomparto fondamentalista a migliaia di chilometri dai loro confini e che potrebbe, senza un intervento, diffondersi domani in numerosi altri paesi africani.”
Tutto ciò a discapito del diritto all’autodeterminazione del popolo del Mali che ha dimostrato, memore peraltro dei crimini del colonialismo francese, un forte sentimento anti-coloniale opponendosi, armi in pugno, all’aggressione neo-coloniale.
La Le Pen parla per bocca dei capitalisti francesi ma quando dice ‘’ L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta’’, non può che avere il plauso di Tel Aviv.
3. In questa intervista Le Pen padre, a dimostrazione del suo servilismo verso la CIA esalta Pinochet, e a comprova della sua fede fascista difende Franco. E’ l’emblema del neofascismo passato armi e bagagli dalla parte dell’imperialismo americano, cosa che, anche ora, i ‘fascisti euroasiatici’, hanno problemi a confutare e rinnegano con una certa vergogna, vergogna per il loro inglorioso ed oscuro passato. http://www.youtube.com/watch?v=zJ3-G78vQ-0
Ricordo anche, per concludere, che Jean Marie Le Pen fu paracadutista dell’esercito francese nelle guerre coloniali in Indocina, durante l’aggressione del ’56 a Suez ( aggressione sostenuta da Israele ) e prese parte alla Battaglia di Algeri contro il Fronte di liberazione nazionale algerino. Quanto ha influito tutto questo sulla formazione di Marine?
originale: http://www.linterferenza.info/esteri/il-neoliberismo-di-marine-le-pen-e-la-sua-lunga-marcia-verso-israele/
venerdì 4 settembre 2015
L'Arabia saudita accorda un credito di 16 miliardi di dollari allo sviluppo d'Israele.
Ricevo, traduco
e pubblico questa importante notizia riportata dal sito del "parti Anti
Sioniste", datata del 21 aprile 2015, riguardante i finanziamenti sauditi al progetto di
colonizzazione sionista della Palestina.
Nel nostro articolo "Alliance maudite Israel/Arabie Saoudite contre Iran"(1), evochiamo le relazioni dubbie ma comunque indiscutibili intrattenute tra l'Arabia Saudita e l'entità sionista d'Israele. Questi due paesi costituiscono due dei più importanti clienti del complesso militare-industriale statunitense, Israele beneficiando gratuitamente dei rifornimenti statunitensi in materia di armamenti, l'Arabia saudita regolando le fatture in petrodollari.
Per fare
questo, i "guardiani" della
Città Santa (la Mecca NDT) sono disposti a tutto, anche a scendere a patti con
il diavolo, Israele, che è in teoria il nemico giurato, ma che diventa l'amico
intimo per l'occasione.
"L'Arabia Saudita ha fornito 16 miliardi di
dollari ad Israele, in due anni e mezzo, per favorire i progetti di
colonizzazione",
secondo il sito web statunitense Consortium
News.
Robert
Parry, caporedattore del sito, precisa che l'Arabia saudita ha versato questa
somma "sul conto del Fondo per lo
sviluppo di Israele, tramite un altro paese arabo e ha assicurato le spese di
un grande numero di piani infrastrutturali, nella Palestina occupata".
Citando una
fonte ben informata e vicina alla CIA, Robert
Perry aggiunge che: "le somme
versate dall'Arabia saudita sul conto israeliano sono state spese per dei
progetti pubblici, come la costruzione di colonie di popolamento sioniste in
Cisgiordania. Finanziando Israele, Riyad mira ad approfittare dell'influenza
che esercita la lobby sionista negli Stati Uniti. L'Arabia saudita e Israele
hanno giocato un ruolo importante nel rovesciamento del governo dei Fratelli
musulmani in Egitto. In Egitto, Riyad sosteneva Abdelfattah al-Sissi, e negli
Stati Uniti, la lobby sionista tentava di evitare ogni azione ostile al colpo di
Stato contro Mohammed Morsi, il presidente eletto. È grazie ai petrodollari
dell'Arabia Saudita che Benjamin Netanyahu è riuscito a sfidare Barack Obama e a
spingere dei congressisti e dei responsabili statunitensi a ostacolare le
negoziazioni sul nuclerare (con l'Iran NDT)".
Nel corso degli scorsi anni, quando l'Arabia saudita e Israele hanno definito l'Iran e la cosiddetta "avanzata sciita" come loro principali nemici, questa alleanza indispensabile è diventata possibile e i sauditi, come sono abituati a fare, hanno messo molti soldi nell'affare.
Nel corso degli scorsi anni, quando l'Arabia saudita e Israele hanno definito l'Iran e la cosiddetta "avanzata sciita" come loro principali nemici, questa alleanza indispensabile è diventata possibile e i sauditi, come sono abituati a fare, hanno messo molti soldi nell'affare.
Il Parti
Anti Sioniste denuncia, con la più grande fermezza, questa alleanza forgiata
col sangue del popolo palestinese e di altri popoli oppressi. Si prepara a dei
nuovi piani diabolici il cui fine è di bloccare ogni resistenza all'occupazione
americano-sionista, specialmente in Siria e in Iran.
originale: http://www.partiantisioniste.com/communications/l-arabie-saoudite-accorde-une-aide-de-16-milliards-de-dollars-au-developpement-d-israel-2371.html
originale: http://www.partiantisioniste.com/communications/l-arabie-saoudite-accorde-une-aide-de-16-milliards-de-dollars-au-developpement-d-israel-2371.html
(1) http://www.partiantisioniste.com/communications/l-alliance-maudite-israel-arabie-saoudite-contre-iran-2314.html
mercoledì 2 settembre 2015
"Eritrea, avanguardia di un'Africa nuova", intervista a Filippo Bovo.
Ho appena comandato il libro "Eritrea, avanguardia di un'Africa nuova" di Filippo Bovo, vi propongo un'intervista piena di spunti ripresa dal sito www.opinione-pubblica.com.
Il Festival d’Eritrea che si è svolto a Milano lo scorso 27-28 giugno è stata l’occasione per intervistare Filippo Bovo, autore di Eritrea, Avanguardia di un’Africa nuova, storia, attualità e avvenire di una giovane nazione, libro appena pubblicato per le Edizioni Anteo.
Marilena Dolce
http://www.opinione-pubblica.com/2015/07/03/eritrea-avanguardia-di-unafrica-nuova-intervista-a-filippo-bovo/
Il Festival d’Eritrea che si è svolto a Milano lo scorso 27-28 giugno è stata l’occasione per intervistare Filippo Bovo, autore di Eritrea, Avanguardia di un’Africa nuova, storia, attualità e avvenire di una giovane nazione, libro appena pubblicato per le Edizioni Anteo.
Un libro dedicato all’Eritrea
perché, come spieghi nell’introduzione, di questo paese si parla troppo
poco. È vero ma oltre alla “quantità”, in che modo si dovrebbe parlare
di Eritrea?
È una bella domanda.
Se ne parla poco e male se guardiamo la panoramica, non solo dei media italiani ma anche occidentali. Uno dei motivi è che l’Eritrea rappresenta un brutto esempio per l’Africa. È un paese che vuole camminare con le proprie gambe e non si vuole che il resto dell’Africa segua quest’esempio.
Se ne parla poco e male se guardiamo la panoramica, non solo dei media italiani ma anche occidentali. Uno dei motivi è che l’Eritrea rappresenta un brutto esempio per l’Africa. È un paese che vuole camminare con le proprie gambe e non si vuole che il resto dell’Africa segua quest’esempio.
Si preferisce l’idea di un’Africa
assistita che dipenda dai nostri istituti finanziari, dai nostri
progetti infrastrutturali, un modo per far profitti alle loro spalle.
Probabilmente dà anche fastidio il ruolo che l’Eritrea ha tenuto nei
confronti della crisi somala, ha dato fastidio il fatto che sia riuscita
a resistere all’attacco etiopico del 1998-2000 e, in certo senso, a
dimostrare, nei limiti delle sue possibilità, nella modestia dei suoi
mezzi d’informazione, che quel conflitto non avveniva per colpa sua, ma
era un’aggressione.
Sono queste le cose che hanno dato fastidio, oltre al modello che incarna.
Questa convinzione trova forza nel fatto che si parla molto poco della guerra di liberazione dell’Eritrea. Una guerra esemplare, senza l’aiuto delle grandi potenze.
Gli eritrei hanno voluto fare quasi tutto da soli, un esempio più unico che raro, questo è il motivo per cui non se ne vuole parlare.
Questa convinzione trova forza nel fatto che si parla molto poco della guerra di liberazione dell’Eritrea. Una guerra esemplare, senza l’aiuto delle grandi potenze.
Gli eritrei hanno voluto fare quasi tutto da soli, un esempio più unico che raro, questo è il motivo per cui non se ne vuole parlare.
Le guerre in Eritrea sono guerre
dimenticate. Non hanno mai conquistato le prime pagine dei giornali,
pochi gli inviati per seguirle, pochissime le testimonianze. Come mai
questa scelta dell’Occidente, in particolar modo dell’Italia?
Il problema è proprio l’assenza
dell’Italia che, nei confronti dell’Eritrea, rappresenta la vecchia
potenza coloniale. Gli altri paesi occidentali, ex potenze coloniali,
hanno mantenuto un rapporto più vicino con quelle che erano le loro
colonie, penso alla Francia o al Portogallo che si è riavvicinato
all’Angola e al Mozambico, l’Italia invece si è comportata come se
l’Eritrea non avesse mai avuto a che fare con lei.
Se ci fosse stato un ruolo della
politica internazionale italiana più visibile, non solo per la guerra
Etiopia-Eritrea, o ancor prima, durante la guerriglia di liberazione
eritrea negli anni ‘60, ‘70 e ‘80, se ci fosse stata una presenza
italiana nella crisi somala, probabilmente questi conflitti non
sarebbero stati dimenticati.
L’Occidente invece è intervenuto, pensiamo all’intervento in Somalia che l’Eritrea non ha visto di buon occhio e se ne sono visti i risultati.
L’Occidente invece è intervenuto, pensiamo all’intervento in Somalia che l’Eritrea non ha visto di buon occhio e se ne sono visti i risultati.
Negli anni ‘70 l’Etiopia di
Menghistu, abbandonata dall’America, si avvicina all’URSS. Anche
l’Italia appoggia l’Etiopia, una scelta che ha lasciato un segno?
Sì. C’è un riflesso dei vecchi schemi
politici e delle vecchie analisi che non sono state aggiornate perché,
nel frattempo, non c’è stato interesse per capire il cambiamento.
Nel caso dell’Etiopia la funzione filo Menghistu del PCI ha preferito lasciare gli eritrei al proprio destino
Nel caso dell’Etiopia la funzione filo Menghistu del PCI ha preferito lasciare gli eritrei al proprio destino
Ci sono le dichiarazioni di Giancarlo Pajetta…
Vero. In seguito l’Etiopia è stata molto
coccolata a livello internazionale, molto ambita, filoamericana.
L’Eritrea invece è stata messa in disparte.
Ha suscitato curiosità la sua indipendenza, poi però questa curiosità è svanita e nel giro di pochi mesi non se n’è parlato più.
Ha suscitato curiosità la sua indipendenza, poi però questa curiosità è svanita e nel giro di pochi mesi non se n’è parlato più.
Forse l’Occidente si aspettava
una democrazia liberale a propria immagine e somiglianza, rimanendo
delusa, nonostante la pacifica convivenza di nove etnie, diverse
religioni e l’assenza di terrorismo…
L’Eritrea ha sconfitto il terrorismo. La
prima apparizione di Al Qaida quando l’Eritrea è diventata indipendente
è stata subito bloccata. L’Eritrea ha denunciato il pericolo, per
questo potrebbe dare consigli utili in materia di anti terrorismo. É il
caso più unico che raro di un paese che ha identificato il terrorismo
subito, sul nascere.
Invece è stata accusata di aiutare Al Shabaab…
Si è detto che l’Eritrea, in Somalia,
stesse giocando sporco in funzione antietiopica, però non è venuto fuori
nulla, anzi sono venuti fuori tanti documenti che si commentano da
soli, smentiti dalle fonti eritree, rimasti soloin ambito ONU,
ottenendo però ascolto presso il giornalismo occidentale. Il comune
cittadino non conosce queste cose, non se ne interessa, sia perché non
si parla mai di Eritrea sia perché non le ritiene cose credibili.
Secondo te come mai i media italiani sono schierati contro l’Eritrea?
Sì, stampa e televisione non usano mezze parole per condannare l’Eritrea.
Soprattutto c’è la strumentalizzazione della “questione immigrazione” e del ruolo del paese. All’Eritrea si danno colpe che non ha, definendola “lager a cielo aperto” dal quale tutti vogliono fuggire, un posto dove vige una dittatura feroce.
Soprattutto c’è la strumentalizzazione della “questione immigrazione” e del ruolo del paese. All’Eritrea si danno colpe che non ha, definendola “lager a cielo aperto” dal quale tutti vogliono fuggire, un posto dove vige una dittatura feroce.
Questa chiave di lettura per una persone
che non sa niente d’Eritrea può apparire credibile, non avendo dati per
contrastarla, quindi in tv può passare questo messaggio sbagliato. La
verità l’abbiamo sotto gli occhi, la vediamo nelle occasioni delle
feste, studiando la storia eritrea. Questo è il punto.
Cosa si aspetta l’Eritrea dall’Italia e cosa pensa l’Italia dell’Eritrea?
L’Eritrea si aspetta dall’Italia maggior
considerazione e comprensione, non in termini di aiuti economici, vuole
invece che l’Italia onori vecchi rapporti e vecchi legami, non sempre
positivi ma nati con la storia comune. L’Eritrea si aspetta che
l’Italia abbia un ruolo di pacificazione nel Corno d’Africa, spendendo
due parole presso gli alleati per far capire cosa accade in un paese che
non è brutto, sporco e cattivo, come si dice in giro. Basterebbe
questo, un’iniziativa a costo zero.
L’Italia da parte sua ha dell’Eritrea
una percezione ondivaga. Ci sono politici che hanno capito che
l’Eritrea non è come la si dipinge, però sono soprattutto gli
imprenditori a essere più attenti nei confronti dell’Eritrea.
Loro sono quelli che potrebbero
cambiarne il destino, innestando un circuito economico tra Italia ed
Eritrea, in alcuni casi già iniziato. Noi però dobbiamo capire che
l’Eritrea può darci lezioni di vario genere, sul senso della famiglia,
per esempio.
Noi abbandoniamo gli anziani con la
badante o in casa di riposo e i bambini davanti ai videogiochi. In
Eritrea questo sarebbe impensabile perché l’anziano è il custode della
memoria e il bambino ne rappresenta il futuro.
Un’altra cosa che l’Eritrea ci può insegnare è il rispetto delle risorse idriche.
Siamo un paese che ha un acquedotto che per metà perde acqua per strada, un paese che ha abbandonato l’agricoltura.
Un tempo eravamo autosufficienti, ora non lo siamo più, importiamo il grano di cui abbiamo bisogno.
L’Eritrea sta facendo il percorso inverso, insegnandoci che è importante camminare con le proprie gambe. È un paese che può insegnare il rispetto per la storia.
Siamo un paese che ha un acquedotto che per metà perde acqua per strada, un paese che ha abbandonato l’agricoltura.
Un tempo eravamo autosufficienti, ora non lo siamo più, importiamo il grano di cui abbiamo bisogno.
L’Eritrea sta facendo il percorso inverso, insegnandoci che è importante camminare con le proprie gambe. È un paese che può insegnare il rispetto per la storia.
Le loro vecchie ferrovie hanno ripreso a funzionare, mentre noi con le nostre ferrovie, tolte le frecce, siamo messi malissimo.
Anche la donna in Eritrea è molto importante.
In Italia non dico non lo sia, però anche donne affermate non hanno solidarietà, al contrario, sono viste con invidia e spirito di competizione.
Questo in Eritrea non avviene perché c’è una società molto unita e la donna è vista con rispetto.
In Italia non dico non lo sia, però anche donne affermate non hanno solidarietà, al contrario, sono viste con invidia e spirito di competizione.
Questo in Eritrea non avviene perché c’è una società molto unita e la donna è vista con rispetto.
Prima accennavi
all’atteggiamento degli imprenditori, però quando un giornale
finanziario attacca violentemente il paese non interrompe, con un
titolo, i molti progressi fatti?
La mia sensazione è che si voglia scongiurare un cambiamento di idee.
Mettendosi sempre dalla parte del paese grande, l’Etiopia, contro il paese piccolo, l’Eritrea?
L’Eritrea è un esempio di caparbietà, un paese che, con le proprie risorse, ha fatto molto.
È grazie alla caparbietà che ha raggiunto molti degli gli Obiettivi del Millennio?
Sì. Li sta raggiungendo nel silenzio di tutti. Ormai neppure questi successi fanno notizia. Dovremmo riflettere su questo.
In appendice, tra gli altri
rapporti citati, c’è l’ultimo della Commissione sui Diritti Umani, un
rapporto scritto senza aver visitato il paese, come mai secondo te?
Questo è il bello. I vari Gruppi di
Monitoraggio sulla Somalia, sull’Eritrea, (SEMG) commissioni o contro
commissioni, in Eritrea o non ci vanno o fanno viaggi banali,
comportandosi poi con grande ipocrisia, come i fatti che stiamo vedendo
confermano.
Però c’è una motivazione; si attacca
l’Eritrea sui diritti umani perché questo è un buon modo per scongiurare
un suo avvicinamento all’Occidente, all’Europa. Diventa difficile per
un politico, anche coraggioso, che voglia avvicinare il proprio paese o
partito all’Eritrea, spiegare che le cose non sono vere quando tutti gli
altri lo affermano.
Se lo fa viene lapidato.
Quindi questa campagna sui diritti umani, che non è diversa dalle campagne fatte contro altri paesi ha più o meno la stessa logica, ha il suo perché. E ha un peso anche sugli imprenditori come dicevamo prima.
Se lo fa viene lapidato.
Quindi questa campagna sui diritti umani, che non è diversa dalle campagne fatte contro altri paesi ha più o meno la stessa logica, ha il suo perché. E ha un peso anche sugli imprenditori come dicevamo prima.
Questo è il motivo per cui la
stampa non ha riportato la notizia dei moltissimi eritrei che sono
andati a Ginevra per manifestare contro il rapporto sui diritti umani?
Infatti è clamoroso. I telegiornali, che parlano anche di gossip, non hanno detto una parola sulla manifestazione di Ginevra.
Potremmo chiederci se chi
manifesta in piazza contro l’accusa di violare i diritti umani e chi
annega nel Mediterraneo per cercare un lavoro in Europa siano figli
dello stesso paese?
Questa considerazione mi ricorda il
discorso della Siria. I siriani che vengono in Italia, sono sempre
siriani? Il problema è che siccome si è delegittimato il governo
dell’Eritrea, come anche quello della Siria per rimanere nel paragone,
allora chi vuole venire in Occidente per chiedere asilo politico è
meglio dica che è siriano anziché libanese perché in questo modo non
sarà rimandato indietro. Questo vale anche per un sudanese e un somalo o
un etiopico. A loro conviene dire di essere eritrei per ricevere asilo.
Questo non vuol dire che non ci siano anche eritrei.
Questo non vuol dire che non ci siano anche eritrei.
Per un migrante economico che
arriva dal sud del mondo, sperando di ricevere asilo, la via è
dichiararsi rifugiato politico, soprattutto se arriva da un paese dove
non c’è guerra, calamità naturali e dove, formalmente, c’è una
democrazia con elezioni…
Sì questo è un ”trucco” noto.
E l’Europa s’interroga: fermarli prima o farli arrivare?
Certo. Mettiamoci dentro anche le
ambasciate occidentali che non danni i visti e le illusioni che
l’Occidente crea. Che la gente abbandoni il paese è anche una strategia
perché il paese perda risorse umane. Vedo molti ragazzi africani,
senegalesi, persone che spesso hanno studiato, che se potessero vivere
nel loro paese farebbero molte cose, che vengono qui per raccogliere
pomodori o vendere accendini, una cosa umiliante.
Tutto il loro potenziale è sprecato, non
è valorizzato. L’Occidente così si fa una riserva di manovali a
bassissimo costo, per abbassare il costo dei lavoratori locali.
S’innesca una lotta tra poveri. Un modo per fermare lo sviluppo di un
paese è anche quello di privarlo di risorse.
Un accenno di biografia: come mai l’interesse per politica e cultura extraeuropea, in particolare modo quella africana?
Una bella domanda. Ho sempre avuto
curiosità di questo tipo che ho portato avanti. Ho fatto vari lavori,
poi sono tornato a questo, che è quello che so fare.
Potendo, fare la cosa che si sa fare e che piace è la miglior scelta, consigliabile…
Per l’Eritrea l’interesse è nato per le
notizie che sentivo e che non mi convincevano, poi avvicinandomi alla
realtà del paese ho scoperto cose di cui non si parlava.
Tutto grazie a un signore che ho incontrato nella sede di un piccolo partito quando ancora facevo politica. Questo signore eritreo, che era stato aiutato come molti altri dal vecchio SDI, mi raccontò del suo paese. Quella è stata la molla che mi ha portato all’interesse e al libro.
Tutto grazie a un signore che ho incontrato nella sede di un piccolo partito quando ancora facevo politica. Questo signore eritreo, che era stato aiutato come molti altri dal vecchio SDI, mi raccontò del suo paese. Quella è stata la molla che mi ha portato all’interesse e al libro.
Ultima domanda: viaggi in Africa?
Mi piacerebbe tanto, è una cosa che ancora manca.
Bene, allora bisognerà cominciare dall’Eritrea…
Marilena Dolce
http://www.opinione-pubblica.com/2015/07/03/eritrea-avanguardia-di-unafrica-nuova-intervista-a-filippo-bovo/
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