Buona lettura.
Da parecchi anni in tutto l’occidente è in atto una campagna di demonizzazione della Repubblica Islamica d'Iran. Questa campagna è cresciuta in modo esponenziale da quando il governo Bush ha etichettato il paese come parte fondante dell'«asse del male», e ha raggiunto il massimo di intensità dopo le recenti elezioni che hanno visto riconfermato Mahmoud Ahmadinejad alla testa del paese. Per settimane l’Iran ha sempre occupato le prime pagine di tutti i quotidiani che, sia a destra che a sinistra, hanno parlato di «brogli elettorali», di «governo illegittimo e dittatoriale», di «repressione estrema» nei confronti di manifestanti «pacifici e democratici», e hanno elogiato i cosiddetti riformisti poiché paladini di libertà, giustizia e moderazione. Ma è davvero questa la realtà iraniana? Come comunisti non si può non diffidare delle informazioni omologate dei media, ed è dunque necessario analizzare più a fondo ciò che sta succedendo in Iran.
Ahmadinejad, Moussavi e i brogli
L’Iran post-rivoluzionario non è uno stato socialista, è più simile a una teocrazia sciita nella quale l’omosessualità è reato e dove vengono applicate punizioni corporali. Sarebbe però falso e semplicistico ridurre il paese soltanto a questo e a qualche blogger finanziato dagli USA perseguito dalla legge. Le scorse elezioni hanno visto contrapposti l’ultraconservatore Ahmadinejad e il moderato Moussavi. Cosa si intende però con «ultraconservatore»? Non lo si usava anche per Reagan? E se questo ultraconservatore fosse più progressista in fatto di diritti sociali di Zapatero, Bertoli e Franceschini messi insieme? L’accusa di brogli è scaturita dal fatto che la vittoria è stata troppo schiacciante, e che a Teheran le manifestazioni a favore di Moussavi sono state parecchio frequentate. Alcuni brogli ci sono stati quasi sicuramente, basti pensare alla velocità con cui è stata proclamata la vittoria di Ahmadinejad o al voto a suo favore di certe regioni a lui tradizionalmente ostili. L'accusa è stata però sempre e fin dai primissimi giorni della contesa basata sulle opinioni di esperti (?) stranieri e su documenti messi in circolazione ad arte. Ad ammetterlo è anche Robert Fisk su "The Independent" del 18 giugno scorso. Che la maggioranza del paese abbia in realtà votato Moussavi è del tutto improbabile. Bisogna tenere conto dei seguenti fattori: 1) Teheran non è rappresentativa di tutto l’Iran e il resto del paese, dove raramente si addentrano i giornalisti occidentali, è più tradizionale e più povero. 2) I sondaggi lasciano il tempo che trovano: alcuni erano opera di «Think Thank» con sede a Washington, altri dell’organizzazione di Mehdi Hashemi, figlio del ricchissimo Rasfajani. 3) L’alta afflueza alle urne non è un segnale di facile vittoria dei moderati: infatti anche quattro anni fa le urne erano rimaste aperte qualche ora in più a causa delle lunghissime file.
L'Iran di Ahmadinejad
È dunque così strano che i due terzi di un paese a maggioranza contadina abbiano votato un uomo che nei suoi ultimi quattro anni di mandato ha garantito l’assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, aumentato lo stipendio dei docenti del 30% e le pensioni del 50%, ha dato dei bonus in denaro ai contadini colpiti dalla siccità, e si è impegnato a pagare le bollette delle famiglie senza reddito? E stiamo proprio parlando della «medievale repubblica teocratica» dove si può abortire fino al 45esimo giorno, dove esiste il divorzio, l’operazione per cambiare sesso è pagata dalla mutua, la prostituzione è legale e regolamentata, il numero dei laureati è in percentuale superiore a quelli italiani, le donne votano e, benché portino il velo (chiodo fisso dell’occidente), possono accedere a tutti i mestieri. Le proteste post-elettorali ci sono però state, e anche parecchio intense, come pure la repressione, fatto certamente da condannare. Bisogna però chiedersi se esiste un solo paese sulla terra che non avrebbe represso in questo modo chi cercava, con molotov e spranghe, di attaccare le forze dell’ordine per tentare di rovesciare il potere subito dopo elezioni tutto sommato democratiche e partecipate. Dinnanzi a un tale rischio, molto astratto qui in Svizzera, i nostri antisommossa non sarebbero più dolci degli ormai famosi motociclisti neri iraniani.
Una contro-rivoluzione colorata
Quello a cui abbiamo assistino in Iran è un palese tentativo di colpo di stato sostenuto, direttamente e indirettamente, volontariamente o involontariamente, da tutto l’occidente, e cammuffato da rivoluzione colorata. È questa la «nuova» strategia di Obama? Sembrerebbe che stia tenendo fede alla promessa: basta con le guerre alla Bush con piogge di bombe e invasioni, ma nuova intensificazione di interventi «nascosti» per destabilizzare i paesi avversari. Il copione che ci è stato proposto in Iran è quasi identico a quello di altri paesi, a partire dall’Ucraina e dalla sua rivoluzione arancione anti-russa. La tecnica dei colpi di stato filo-imperialisti, cammuffati da rivoluzioni colorate, segue ormai uno schema ben consolidato: 1) subito dopo le elezioni, un infinità di media sostengono la tesi secondo la quale sia stata l’opposizione a vincere e spingono la popolazione scontenta a scendere in piazza; 2) vengono lanciate parole d’ordine già ben premeditate e si da un’immagine pacifica, democratica e vittimistica dell’opposizione lanciando una vera guerra psicologica di disinformazione; 3) si chiede l’annullamento delle elezioni, si pretende che siano supervisionate da Bruxelles e Washington (UE+USA), e si continua ad imbottire di soldi l’opposizione (a cui già non mancano) così che possa lavorare in questa direzione. In Iran è però venuto a mancare il sostegno popolare, rendendo quasi vano il tentativo di colpo di stato. La rivoluzione verde è infatti stata sostenuta dalla borghesia cittadina, da studenti universitari troppo giovani per apprezzare i miglioramenti della rivoluzione islamica, e da una fetta delle donne, sempre di città, abbagliate dal consumismo occidentale. Non è dunque una lettura sbagliata quella secondo la quale Ahmadinejad rappresenta, sebbene non sia socialista, gli interessi del popolo, mentre Moussavi quelli della borghesia. In Iran è in atto una lotta di classe e i comunisti devono per forza schierarsi con chi più rappresenta il progresso e la giustizia sociale, e Chávez ha già capito da parecchio tempo a quale classe sociale Ahmadinejad sia più vicino. Persino il "Financial Times" del 15 luglio scorso lo ha capito sostenendo che "cambiamento, per i poveri, significa cibo e lavoro, non vestiti casual... la politica in Iran ha a che fare più con la lotta di classe che con la religione".
Quale «cambiamento»?
Si tratta di una lotta di classe che non avrà come esito il socialismo, perlomeno non nel breve periodo. Qui si tratta di capire come, in termine squisitamente marxisti, la «contraddizione principale» nel Medioriente è oggi la contesa fra imperialismo da un alto e sovranità nazionale dall'altro. La realtà geopolitica ed economica dell'Iran la rendono strategica per il controllo dell'area, ma la politica dell'attuale governo iraniano non favorisce l'egemonia di USA e Israele, non solo perché anti-imperialista ma perché aumenta i diritti sociali limitando le possibilità dell'economia globale di sfruttare il mercato nazionale. Chi oggi dice – e lo dicono purtroppo anche tanti a sinistra (ad esempio il partito iraniano Tudeh ex-filo-sovietico ma ormai del tutto estraneo alla situazione concreta dell'Iran – che le manifestazioni di piazza promuoveranno i diritti civili non si rende conto che i diritti civili saranno solo una chimera se non saranno salvaguardati i diritti sociali oggi esistenti con Ahmadinejad. Entrambe le fazioni politiche che si scontrano oggi in Iran sono integrate nel contesto della rivoluzione islamica: credere che Moussavi (già primo ministro ai tempi di Khomeini) difenda l'ipotesi di introdurre nel paese una democrazia liberale e laicizzare la società è pura fantasia! Moussavi è colui che ha criticato l'attuale governo per il suo programma sociale, ha auspicato la privatizzazione dell'industria petrolifera e una linea di maggiore apertura nei confronti di Washington. Il gruppo che sta dietro al leader dell'opposizione controlla infatti quasi tutto il commercio con l'occidente. Chiaramente la linea nazionalista e anti-imperialista di Ahmadinejad (che preferisce guardare a Russia, Cina e America latina) non favorisce gli interessi della borghesia compradora iraniana.
Come uscire dalla crisi iraniana?
Sono tre le ipotesi possibili: la prima è che l'opposizione perda e che il regime iraniano salvi lo status quo; la seconda è che l'opposizione vinca e che l'Iran si trasformi in un partner dell'imperialismo occidentale sulle basi di un corso economico neo-liberale; e la terza è che dal consolidarsi delle posizioni anti-imperialiste dell'Iran di Ahmadinejad si passi man mano a conquiste democratiche e sociali sempre maggiori, e questo magari con l'aiuto di paesi come il Venezuela e di organizzazioni come la Federazione Sindacale Mondiale.
Amedeo Sartorio
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