domenica 6 settembre 2015

Il neoliberismo di Marine Le Pen e la sua lunga marcia verso Israele


Vi propongo questo ottimo articolo di Stefano Zecchinelli, ripreso dal sito linterferenza.info, che parla dell'ingannevole sovranismo delle destre post-fasciste e del filo-sionismo della Le Pen.



Il neoliberismo di Marine Le Pen e la sua lunga marcia verso Israele

1)L’affermazione politica del Front Nazional e la diffusa fascinazione che sta esercitando questa forza politica su molti settori popolari, mi spinge a riprendere alcune mie lontane riflessioni riguardanti questa organizzazione di estrema destra, neo-liberista e, come vedremo, filo-sionista. Mi accingo, dunque, ad analizzare gli stretti rapporti che intercorrono fra neofascismo e sionismo e fra la destra post-neo-fascista ed Israele. L’articolo pubblicato su questo giornale http://www.linterferenza.info/contributi/lestrema-destra-neofascista-manovalanza-degli-usa-e-di-israele/ si propone di inquadrare ideologicamente la destra postfascista all’interno del più vasto campo della ideologia neoconservatrice Usa.
Proprio a partire da questo assunto vedremo come il progetto imperialistico di Marine Le Pen sia funzionale ai progetti imperialistici israeliani che troverebbero nella Francia neocolonialista un valido appoggio. I lavori di ricerca che propongo all’attenzione dei lettori, infatti, hanno una comune radice: individuando nell’ “islamofobia” l’elemento che accomuna il neofascismo tradizionale e molte organizzazioni della destra radicale filo statunitensi e filoisraeliane.
Il caso del Front National è eloquente ma prima di tutto è importante dimostrare che questa organizzazione non ha nulla di progressista per quanto riguarda il suo programma politico ed economico.
Per dimostrare l’estraneità della Le Pen a qualsiasi autentica critica del capitalismo spenderò qualche parola sul “sovranismo di destra” che caratterizza questa organizzazione, prodotto diretto del neofascismo, anche se bisogna evitare semplificazioni fuorvianti che ci porterebbero fuori strada..
Parto quindi da un discorso pronunciato nel 2011 proprio dalla signora Marine Le Pen che dice: ‘’ Oggi non abbiamo più il controllo delle nostre frontiere perchè, dopo aver soppresso le nostre frontiere nazionali, abbiamo ceduto l’integrità territoriale francese ed europea ad un organismo europeo denominato Frontex. E siccome ho appena parlato di anonimato, faccio una domanda : I francesi sanno cosa sia il ’Frontex’? No, non lo sanno di certo’’. Il nazionalismo, ogniqualvolta si è spostato a destra ( per poi restarci definitivamente)  ha preso in esame, solo ed esclusivamente, questioni di confine ( Istria, Dalmazia, Trieste, ecc … ) ma mai di sovranità concepita come controllo e gestione delle risorse da parte di un governo popolare.
Fedele alla tradizione delle destre ( per loro stessa natura colonialistiche ed anti-popolari ) Marine Le Pen parla di sovranità ponendo il problema del controllo delle frontiere. E’ bene entrare nel merito dato che c’è molta confusione. Come prima cosa, chi vuole inquadrare il problema, deve mettersi in testa che le destre europee e occidentali non possono avere nessun titolo nel porre la questione della sovranità nazionale/popolare, intesa come controllo e gestione democratica e popolare delle risorse (naturali ed umane) di un territorio o di uno stato, per la semplice ragione che sono sempre state in prima fila nel portare avanti politiche colonialiste e imperialiste finalizzate a sfruttare i popoli, ad espropriarli delle risorse naturali e ad imporre con la forza regimi coloniali, infischiandosene  completamente di quella sovranità che esse per prime calpestavano (questo vale per tutti i paesi europei, compreso l’imperialismo straccione italiano ).
Non è un caso che la Le Pen celebri De Gaulle, il più lucido esponente dell’imperialismo francese, in questo modo: ‘’ Questi bei signori, per così dire illuminati, si sono forse dimenticati che la Francia è stata definita nella sua storia la «grande nazione» e che il genio del suo popolo l’ha fatta risplendere nel mondo intero? Bisogna forse ricordare loro che durante i secoli, il nostro Paese ha gestito l’intera emissione della propria moneta nazionale con il più grande beneficio per la sua economia e la sua prosperità? Si sono forse dimenticati che alla fine della guerra, c’è stata l’indipendente determinazione del Generale de Gaulle di rifiutare di vedersi imporre una valuta USA che i liberatori americani avevano importato insieme ai loro mezzi militari?’’


Certo, è proprio così, se si sostiene l’idea  di un imperialismo francese (e quello di De Gaulle fu il più coerente tentativo di creare un polo imperialistico europeo) bisogna necessariamente provare a svincolarsi dall’imperialismo americano. Resta però un problema: l’anti-americanismo per essere coerente e conseguente deve trasformarsi anche in antimperialismo (e anti-occidentalismo) mentre, le destre, sono perfettamente integrate nella cultura colonialistica e imperialistica occidentale ( questo lo ha spiegato bene l’intellettuale palestinese Edward Said che non a caso ha parlato di “Occidentalismo” ). Questo fa si che l’anti-americanismo della Le Pen sia solo di facciata. La lady sionista ( questa vuole essere una provocazione, quindi il lettore la colga in pieno!) parla di sovranità monetaria tenendo per mano il padrone di Tel Aviv e strizzando l’occhio a quello di Washington. Se non capiamo questo non cogliamo la sostanza dell’intera questione..
Ricordiamo anche che De Gaulle per difendersi dagli anglo-americani si mise nelle mani della famiglia Rothschild, scegliendo come primo ministro il procuratore della Banca centrale, George Pompidou, accusato poi dai gaullisti di sinistra di essere un anglofilo. Frequentazioni poco socialiste, soprattutto per uno (De Gaulle) che in Algeria e in Indocina si è sporcato le mani (di sangue…).
In estrema sintesi ritengo che le caratteristiche delle estreme destre europee, con prospettive di governo, siano queste:
(1) Insistono sulla sovranità senza portare nessuna reale critica all’imperialismo; il loro slogan  (quello con cui raccolgono consensi) è “fuori gli immigrati” e non certo ‘’fuori la Francia e l’Europa dalla NATO’’.
(2) Il Front National  si è di fatto configurato come l’ultima spiaggia delle rachitiche borghesie nazionali francesi messe relativamente nell’angolo dal grande capitale internazionale. Oggi i bianchi colonizzano i bianchi e l’imperialismo Usa si è potuto appoggiare, anche in Europa, a borghesie compradore simili, per molti aspetti, ai commissari dei Paesi Coloniali della metà del ‘900.
Che dire? Da questo punto di vista Napolitano, Monti e Sarcozy, sono molto simili a Pinochet, Mobutu e  Suharto. Non siamo in presenza della repressione del dissenso politico ma la funzione socio-economica è sostanzialmente identica.
2. Altri brevi rilievi: (1) l’islamofobia; (2) il passato glorioso della Francia a cui allude la signora Le Pen.
(1) Con l’islamofobia Marine Le Pen scimmiotta l’ideologia dei neo-conservatori Usa. Proporrei una duplice lettura: (1) l’ideologia neo-conservatrice nasce in Europa ( Spengler, Schmitt, Evola, ecc … ) e poi viene esportata negli Usa ( Leo Strauss, Novak, Pipes, ecc … ), quindi per comprendere la sottomissione dei gruppi dominanti europei a quelli d’oltre oceano bisogna considerare anche il riciclaggio delle vecchie destre, che da pan-europeiste si trasformano in pan-atlantiste; (2) una guerra imperialistica, combattuta con armi e tecnologia sofisticatissima, necessita di una guerra ideologica preventiva. Concetti come ‘’scontro di civiltà’’, ‘’supremazia del mondo occidentale’’, ‘’assolutizzazione del concetto di democrazia’’  e ‘’totalitarismo’’ si adattano benissimo non solo agli interessi dell’imperialismo USA ma anche a quelli dell’imperialismo francese.  Le vie dell’imperialismo sono infinite e l’odio verso l’Islam di Madame Le Pen ha delle ragioni socio-economiche che vanno oltre la mediocrità culturale del soggetto in questione.

(2) La ‘’grande Francia’’, dice la Le Pen. E’ chiaro che alla radice c’è una ideologia social-sciovinistica tipica della piccola borghesia che peraltro ha avuto risvolti comici negli Stati Uniti (si pensi al “gingoismo”). La difesa dei particolarismi (cosa ben diversa dalla difesa della sovranità nazionale) si traduce sempre in una sorta di superiorità o di supremazia etnica (di carattere ‘’razziale’’ e nazionale). Ecco, dunque, servita su un piatto, la matrice ideologica dell’imperialismo.

Marine Le Pen ha ricevuto messaggi di stima da parte dalle centrali sioniste occidentali; il suo partito si rifà all’esperienza politica della Repubblica di Vichy e raccoglie reduci della organizzazione terroristica, filo-sionista e filo-americana, chiamata OAS ( legata all’Aginter Press e sotto il controllo diretto della CIA). La stessa potenza imperialistica Usa potrebbe ad esempio, in queste circostanze, utilizzare una “capo popolo” filo-colonialista per destabilizzare l’Algeria, paese nella lista nera della CIA.  In parole povere, se in buona sostanza la Le Pen è un’ultima risorsa per la borghesia nazionale francese, è altrettanto certo che gli Usa non hanno nulla di cui temere da una sua eventuale affermazione politica che la portasse alla guida del paese.
I movimenti politici si giudicano partendo (1) dallo studio della loro genesi storica, (2) dalla analisi della natura di classe che questi hanno e (3) dalla individuazione della base sociale e del consenso ottenuto quindi – come direbbe Gramsci – dal loro blocco storico. Il lepenismo è un direttissimo prodotto del movimento reazionario di Poujade chiamato l’Unione della Difesa dei Commercianti e Artigiani (UDCA), un movimento che negli anni ‘50 difendeva la piccola borghesia sia contro il proletariato che contro “lo Stato vampiro”. Scusate ma questo antistatalismo non fu, in seguito, proprio lo slogan propagandistico di Ronald Reagan il quale, una volta, in televisione, rivolgendosi alla piccola borghesia americana, tagliò una banconota e disse:”lo Stato vi sta facendo questo”?. E non fu forse proprio il reaganismo l’anticamera di un nazional-neoliberismo che pose le basi per le aggressioni militariste dell’era Bush creandone le condizioni propizie? Madame Le Pen, come dicevamo, è l’ultima spiaggia per il colonialismo europeo; gli sono per ora sfavorevoli i rapporti di forza ma non è detto che la situazione non possa cambiare. Qualcuno obietterà:”Ma la Le Pen, se leggiamo con attenzione il suo programma, chiede uno Stato corporativo”. E’ possibile accettare in parte questa obiezione ed ammettere che il FN mescoli statalismo e neoliberismo (se è per questo anche il primo Mussolini) ma faccio anche notare come storicamente molti movimenti neocorporativisti divennero, al potere, neoliberisti. Un esempio su tutti è il movimento gremialista cileno di Guzman che divenne la lunga mano di Milton Friedman e degli Usa in Cile, dopo il golpe. Marine Le Pen ha forse mai rinnegato l’esperienza pinochetista? Ogni movimento politico deve fare sempre i conti con la storia, non si può transigere su questo; in caso contrario sarebbe una sorta di alieno politico e di certo il neofascismo non è tale.
Come giustamente obiettò Moreno Pasquinelli in risposta a Costanzo Preve: ‘’ Il sovranismo nazionale di per sé, se non è una convenzione semantica,  è solo un concetto che, calato nella pratica, può assumere diverse forme, e alle forme corrispondono diversi contenuti. Il sovranismo può essere revanchista, reazionario, sciovinista, razzista, fascista e imperialista, come appunto quello del Fronte Nazionale francese, o può essere, al contrario, antimperialista, socialista, internazionalista e rivoluzionario. Tra i più accaniti sovranisti, ad esempio, si annoverano nord-americani e israeliani, di cui speriamo Preve non nutrirà alcuna ammirazione — e che non vorrà, per una tarda infatuazione di matrice idealistica dello Stato-nazione, porre sullo stesso piano dei patriottismi cubano o palestinese’’.
Il patriottismo è da salutare positivamente quando ha un suo coerente percorso di natura socialista e antimperialista.  In virtù di ciò è da accogliere senz’altro positivamente lo spirito patriottico dei socialisti venezuelani e cubani, degli Hezbollah e di Hamas, ma mai di forze che hanno avuto legami con le destre fasciste e il colonialismo. Ogni autentica forza politica socialista e progressista europea deve innanzitutto recidere ogni legame con il passato imperialistico dello stato e della nazione di cui fa parte.
Il sovranismo della Le Pen (1) non prende in considerazione seriamente nessuna questione sociale interna ( quindi figuriamoci se può prendere in considerazione i diritti delle classi lavoratrici ), (2) come abbiamo già detto, è orientato verso un capitalismo corporativo senza, oltretutto, rinunciare al neo-liberismo.
In questo, la Le Pen al pari di Orban ( e forse, un domani, dei bonapartisti post-berlusconiani in Italia ), propone una ‘via nazionale al capitalismo neo-liberista’, svincolando, in parte ( in parte per i motivi suddetti ) la borghesia francese dai dettati degli Stati Uniti. Credo che dovremmo riflettere su questo aspetto: non solo la Le Pen si guarda bene dal proporre la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma si oppone solo alla libera circolazione delle persone ( come la Lega Nord, del resto ), permettendo ( e promuovendo ? ) la libera circolazione dei capitali. Il FN oltre ad essere filo colonialista e neoliberista ha profonde radici razziste. Cosa fomenta la signora Le Pen? Un ritorno in grande stile al razzismo antiarabo che è una delle principali vergogne d quella Grande Francia a cui lei fa riferimento. Chi simpatizza per la signora Le Pen non può continuare a decontestualizzare la critica all’Euro senza ricollegarla a tutta una serie di politiche sociali conseguenti. Come ignorare il razzismo del FN e non pensare che un partito politico non può scrollarsi dalla sera alla mattina di quella che è stata la sua ragion d’essere (e sulla quale ha da sempre raccolto consensi). E’ davvero ingenuo questo modo di procedere, è come pensare che sia possibile uno spostamento a sinistra di ex militanti del MSI ( Movimento Sociale Italiano ), una cosa che non sta né in cielo e né in terra.
Credo, oltretutto, che sbagli di grosso chi crede che il Front National sia strategicamente contro l’Unione Europea, e suggerisco a questi commentatori di operare una distinzione fra tattica e strategia politica, fra gli slogan, la propaganda e l’orientamento strategico di un movimento. Il FN è contro una UE che abbia come centrale di comando Londra, quindi propone una revisione degli ultimi passaggi di questo processo di integrazione – principalmente dal 1992 in poi – guardando con favore ad un Asse Parigi-Berlino. Per fare questo è necessario il consenso di una parte dell’oligarchia russa e soprattutto di Israele, la patria del sionismo più bellicoso.
Quindi che cos’è il FN ? Il FN è una organizzazione di destra anticomunista ( antipopolare e razzista ) che si oppone ad ogni forma di vero progresso sociale. La matrice ideologica è quella della destra statunitense e dei neocon: (1) supremazia bianca  (2) antisocialismo e militarismo; (3) razzismo ed islamofobia. In cosa si differenzia la Le Pen da Bush ? Praticamente in nulla, ideologicamente parlando, solo che per garantire la ripresa della tradizione colonialista francese ( e qui sta la differenza ), Marine Le Pen deve defilarsi geopoliticamente e cercare l’appoggio dei settori più tradizionalisti della Russia.
Il sostegno di Israele al FN è cruciale ed è bene portare alcuni esempi.
Nel novembre del 2011 Marine Le Pen incontra a New York l’ambasciatore israeliano negli Usa, Ron Prosor. Nonostante Israele pubblicamente non tratti l’episodio con entusiasmo, sottobanco i rapporti crescono.
Nello stesso anno il vicepresidente, Louis Aliot, parte per Tel Aviv accompagnato dal sionista di ferro, un militarista likudista, Michel Thooris. Questo signore è un apologeta della politica simil-fascista di Netanyahu e giustificò l’aggressione imperialista contro il Libano nel 2006 ed il massacro perpetrato durante l’operazione “Piombo Fuso” nel 2008. I rapporti si stringono e Thooris sarà accanto la Le Pen nelle elezioni del 2012. Sempre Aliot rassicurò la lobby sionista che la Francia avrebbe appoggiato sempre Israele contro il mondo arabo e islamico e Marine Le Pen prese le difese dei picchiatori razzisti della Lega di difesa ebraica.
Non per essere ripetitivo ma il FN si accompagna in Europa ai seguenti partiti ultranazionalisti. Non è la prima volta che riportiamo un breve elenco delle destre europee ma è bene riprenderne visione:
Bloc Identitaire (Francia), British National Party (UK), CasaPound Italia (Italia), Dansk Folkeparti (Danimarca), English Defence League (UK), Front National (Francia), Partij voor de Vrijheid (PVV, Olanda), Die Freiheit (Germania), Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ, Austria), Fremskrittspartiet (Norvegia), Lega Nord (Italia), Perussuomalaiset (Finlandia), Sverigedemokraterna (Svezia) e Vlaams Belang (Belgio).

Cosa salta all’occhio dell’osservatore scrupoloso? In primis si mescolano organizzazioni neofasciste ( come i belgi di Vlaams Belang, il Bloc Identitaire francese e l’italiana CasaPound ) con organizzazioni della destra tradizionalista ma anche neoliberista ( es. la Lega Nord ). Ancora: tutte queste organizzazioni sono filoisraeliane e alcune fanno anche apologia del sionismo ( si pensi agli olandesi di Partij voor de Vrijheid il cui leader vanta pubblicamente stretti rapporti col Mossad ). La Lega Nord, in Italia, è l’anello di congiunzione fra la destra neoliberista e quella neofascista e non a caso Mario Borghezio vanta stretti rapporti sia con reduci stragisti di Avanguardia Nazionale (ha partecipato ad un recente convegno, nel Lazio, presieduto dal terrorista nero Stefano Delle Chiaie ) che con l’atlantica CasaPound.  E’ in quest’ ottica – legami fra neofascismo, servizi segreti e simpatie per l’ideologia neoconservatrice Usa – che dobbiamo leggere i viaggi a Washington e a Tel Aviv di alcuni membri del FN? Eppure già i reduci dell’OAS che fondarono il FN furono appoggiati dal Mossad nella lotta contro i patrioti algerini e il “nasserismo”. In quali termini i rapporti si sono evoluti? Possiamo porre questa domanda: dall’appoggio occulto – servizi segreti e stragismo – si è passati alla progettualità politica? La Le Pen sarà la donna di Israele e della lobby sionista in Francia? Aspettiamo a dirlo ma le domande poste hanno un loro fondamento e mi pare che il cuore della questione sia proprio questa. Faccio una provocazione: il Front National potrebbe essere il volto legale dell’Aginter Press (organizzazione anticomunista che si infiltrò in molti movimenti degli anni ’70 ed etero diretta della CIA ). Certo, si tratta di affermazioni forti ma una seria riflessione politica non può escluderlo affatto.
Molti giornalisti hanno sottolineato l’appoggio di singoli intellettuali – come Alain Soral – che da filo-arabi hanno finito per appoggiare il FN. Ma gli intellettuali, spesso vanitosi e alla costante ricerca di visibilità (in Italia abbiamo numerosi esempi), sono spesso disposti a tutto pur di finire sulla copertina di un magazine di grido. Come, invece, ignorare un’ intera macchina burocratica che si è mossa in direzione di Tel Aviv ? Come fare finta di nulla e non vedere che si è costituita una vera e propria Internazionale islamofoba, con i partiti prima citati, e che il FN è ben incastonato in questo sistema? Credo che sia necessario capire che non è il singolo intellettuale e le sue fissazioni mentali a ‘fare un movimento’ ma la prospettiva complessiva – sia in termini di politica interna che estera – di questo, oltre alla sua capacità di riciclarsi, ossia la sua vocazione trasformistica ed opportunista. La prossimità fra il partito lepenista e l governo israeliano è evidente.

Fino ad ora l’elemento che abbiamo messo maggiormente a fuoco è il carattere neoliberista dell’ organizzazione politica guidata da Marine Le Pen. Chiediamoci cosa potrebbe succedere se quest’ultima  applicasse il suo programma; che risultati potrebbero scaturirne? Cosa succederebbe se il FN governasse la Francia ?
Il risultato non potrebbe che essere una macelleria sociale interna unita ad una sempre crescente aggressività imperialistica della potenza francese. Un programma razzista ed anti-operaio che ha portato dentro il FN il peggio della società francese: dalle masse “plebeizzate” alla piccola borghesia arrabbiata, dai grandi capitalisti alle centrali sioniste,dalle attrici e pornostar in carriera ai bottegai. Uno schieramento di forze  che riesce a coniugare spinte e pulsioni xenofobe e razziste con il sostegno al sionismo. La qual cosa  non ha di certo preoccupato gli Usa dato che questa signora, prima delle elezioni del 2012, ‘’ È poi volata a New York ai primi di novembre e ha incontrato per 20 minuti l’Ambasciatore d’Israele all’Onu, Ron Prosor. E il quotidiano Haaretz le concede una possibilità, purché la condanna dell’anti-semitismo sia “chiara e forte”. A Palm Beach, Marine ha cenato con 200 repubblicani del Tea Party da Bill Diamond, finanziatore ebreo di Rudolph Giuliani. E per un soffio non è stata accolta da vip al Museo della Shoah a Washington. Che il secondo turno sia dietro l’angolo?’’.


Ci spiegassero i sostenitori del superamento della dicotomia destra/sinistra se questa signora è in grado di destabilizzare il sistema di comando che poggia sulla NATO e sull’Euro. Per quanto mi riguarda, non resta che seguire il monito di Virgilio che disse a Dante “non ti curar di lor ma guarda e passa”. Una cosa sola: di fronte ad un tentativo di svolta reazionaria e neoliberista le classi lavoratrici dovranno ricorrere ad ampie mobilitazioni.
Approfondimenti
1. Giorgio Galli in un suo lavoro sulla destra europea scrive : ‘’La ferita di Dien Bien Phu e di Algeri non si è mai rimarginata. Essa ha impedito, con i suoi riflessi sull’orgoglio gollista, un più rapido processo di unificazione dell’Europa nella fase di ascesa del riformismo. I legionari e i paras d’Indocina e di Algeri, i loro superstiti ufficiali ( i ‘soldats perdus’ di De Gaulle ) che hanno inseguito la disperata avventura dell’OAS, sono, sinora, gli ultimi eroi combattenti della destra radicale europea e nello stesso tempo coloro che le hanno lasciato in eredità passiva l’occasione mancata costituita dall’unificazione europea. I loro continuatori sono i combattenti americani nel Vietnam, di cui si tratterà nel capitalismo successivo’’ ( Giorgio Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Arnoldo Mondadori Editore ).
La destra radicale post-fascista, in funzione anti-comunista, diventò uno strumento provocatorio e stragista degli Usa: i neofascisti hanno appoggiato Israele contro i popoli arabi e la Rhodesia bianca contro i movimenti di liberazione nazionale africani. Hanno appoggiato il Sudafrica razzista ed esaltato tutti i colpi di stato neo-liberisti appoggiati dalla CIA.
La svolta filo-americana della destra pan-europeista ( da sempre apparentata con molte organizzazioni sioniste, si pensi all’accordo del regime nazista con la borghesia ebraica, nel 1935, a Praga ) riflette la debolezza delle classi dirigenti europee. Gli aspetti che mi sembrano importanti, in questo caso, sono due: (1) per mantenere il loro potere e contenere il movimento operaio quelle stesse calssi dirgenti non potevano che mettersi al servizio di Washington (quindi insozzarsi le mani per conto di un padrone molto più potente ); (2) un ruolo di primo piano venne affidato ai militari ed ai servizi segreti ( dai neofascisti definiti i ‘corpi sani dello stato’ ) i quali, in modo criminale, cercarono di difendere le manovre imperialistiche dei singoli paesi all’interno della NATO.
2. Il carattere filo-imperialista della Le Pen è confermato anche dal modo attraverso cui questa signora filo sionista ha salutato l’ aggressione imperialistica al Mali:
“Miei cari compatrioti della Francia metropolitana, d’oltremare e stabiliti all’estero, si impone un’illuminazione politica sull’offensiva lanciata dalla Francia contro i fondamentalisti islamici nel Mali. Sì, lo sapete, noi sosteniamo l’operazione francese. Perché è una risposta legittima alla richiesta del governo moderato di un paese amico, francofono e alleato storico della Francia. La Francia potenza mondiale, la Francia potenza d’equilibrio ha dei doveri particolari nel mondo, che si onorerà nell’interesse delle nazioni amiche e nel nostro interesse superiore quando la causa è giusta. È il caso questa volta. Tanto più che la Francia e il Mali sono legati da una cooperazione di difesa, cosa che rende del resto molto superficiali e inutili i dibattiti sul coinvolgimento o non della NATO o dell’Unione europea. La Francia è una grande potenza, che ha le capacità di effettuare autonomamente quando necessario, senza avere bisogno di essere necessariamente il vassallo di qualcuno. Se le coalizioni sono a volte necessarie, spetta alla Francia e solo ad essa determinare l’interesse o no della sua partecipazione. L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta. Mi fido dei nostri soldati coraggiosi e del nostro esercito per pervenirvi al più presto possibile. Permettetemi a questo punto un pensiero commosso e rattristato per le famiglie dei nostri soldati già scomparsi in questa operazione e per le vittime francesi del tentativo di liberazione del nostro ostaggio in Somalia. La loro morte non sarà stata inutile, ed è per la Francia che il combattimento sarà stato condotto con coraggio. Da questo intervento nel Mali dipende la sicurezza della regione, la sicurezza dei nostri connazionali e la sicurezza dell’Europa e la Francia, che non hanno alcun interesse a vedere lo svilupparsi un nuovo scomparto fondamentalista a migliaia di chilometri dai loro confini e che potrebbe, senza un intervento, diffondersi domani in numerosi altri paesi africani.”
Tutto ciò a discapito del diritto all’autodeterminazione del popolo del Mali che ha dimostrato, memore peraltro dei crimini del colonialismo francese, un forte sentimento anti-coloniale opponendosi, armi in pugno, all’aggressione neo-coloniale.
La Le Pen parla per bocca dei capitalisti francesi ma quando dice ‘’ L’avanzata islamista nel Mali deve essere interrotta’’, non può che avere il plauso di Tel Aviv.
3. In questa intervista Le Pen padre, a dimostrazione del suo servilismo verso la CIA esalta Pinochet, e a comprova della sua fede fascista difende Franco. E’ l’emblema del neofascismo passato armi e bagagli dalla parte dell’imperialismo americano, cosa che, anche ora, i ‘fascisti euroasiatici’, hanno problemi a confutare e rinnegano con una certa vergogna, vergogna per il loro inglorioso ed oscuro passato. http://www.youtube.com/watch?v=zJ3-G78vQ-0
Ricordo anche, per concludere, che Jean Marie Le Pen fu paracadutista dell’esercito francese nelle guerre coloniali in Indocina, durante l’aggressione del ’56 a Suez ( aggressione sostenuta da Israele ) e prese parte alla Battaglia di Algeri contro il Fronte di liberazione nazionale algerino. Quanto ha influito tutto questo sulla formazione di Marine?


originale: http://www.linterferenza.info/esteri/il-neoliberismo-di-marine-le-pen-e-la-sua-lunga-marcia-verso-israele/




venerdì 4 settembre 2015

L'Arabia saudita accorda un credito di 16 miliardi di dollari allo sviluppo d'Israele.


Ricevo, traduco e pubblico questa importante notizia riportata dal sito del "parti Anti Sioniste", datata del 21 aprile 2015,  riguardante i finanziamenti sauditi al progetto di colonizzazione sionista della Palestina.



Nel nostro articolo "Alliance maudite Israel/Arabie Saoudite contre Iran"(1), evochiamo le relazioni dubbie ma comunque indiscutibili intrattenute tra l'Arabia Saudita e l'entità sionista d'Israele. Questi due paesi costituiscono due dei più importanti clienti del complesso militare-industriale statunitense, Israele beneficiando gratuitamente dei rifornimenti statunitensi in materia di armamenti, l'Arabia saudita regolando le fatture in petrodollari.

Per fare questo, i "guardiani" della Città Santa (la Mecca NDT) sono disposti a tutto, anche a scendere a patti con il diavolo, Israele, che è in teoria il nemico giurato, ma che diventa l'amico intimo per l'occasione.
"L'Arabia Saudita ha fornito 16 miliardi di dollari ad Israele, in due anni e mezzo, per favorire i progetti di colonizzazione", secondo il sito web statunitense Consortium News.
Robert Parry, caporedattore del sito, precisa che l'Arabia saudita ha versato questa somma "sul conto del Fondo per lo sviluppo di Israele, tramite un altro paese arabo e ha assicurato le spese di un grande numero di piani infrastrutturali, nella Palestina occupata".
Citando una fonte ben informata e vicina alla CIA, Robert Perry aggiunge che: "le somme versate dall'Arabia saudita sul conto israeliano sono state spese per dei progetti pubblici, come la costruzione di colonie di popolamento sioniste in Cisgiordania. Finanziando Israele, Riyad mira ad approfittare dell'influenza che esercita la lobby sionista negli Stati Uniti. L'Arabia saudita e Israele hanno giocato un ruolo importante nel rovesciamento del governo dei Fratelli musulmani in Egitto. In Egitto, Riyad sosteneva Abdelfattah al-Sissi, e negli Stati Uniti, la lobby sionista tentava di evitare ogni azione ostile al colpo di Stato contro Mohammed Morsi, il presidente eletto. È grazie ai petrodollari dell'Arabia Saudita che Benjamin Netanyahu è riuscito a sfidare Barack Obama e a spingere dei congressisti e dei responsabili statunitensi a ostacolare le negoziazioni sul nuclerare (con l'Iran NDT)".
Nel corso degli scorsi anni, quando l'Arabia saudita e Israele hanno definito l'Iran e la cosiddetta "avanzata sciita" come loro principali nemici, questa alleanza indispensabile è diventata possibile e i sauditi, come sono abituati a fare, hanno messo molti soldi nell'affare.

Il Parti Anti Sioniste denuncia, con la più grande fermezza, questa alleanza forgiata col sangue del popolo palestinese e di altri popoli oppressi. Si prepara a dei nuovi piani diabolici il cui fine è di bloccare ogni resistenza all'occupazione americano-sionista, specialmente in Siria e in Iran.



originale: http://www.partiantisioniste.com/communications/l-arabie-saoudite-accorde-une-aide-de-16-milliards-de-dollars-au-developpement-d-israel-2371.html

(1) http://www.partiantisioniste.com/communications/l-alliance-maudite-israel-arabie-saoudite-contre-iran-2314.html

mercoledì 2 settembre 2015

"Eritrea, avanguardia di un'Africa nuova", intervista a Filippo Bovo.

Ho appena comandato il libro "Eritrea, avanguardia di un'Africa nuova" di Filippo Bovo, vi propongo un'intervista piena di spunti ripresa dal sito www.opinione-pubblica.com.







Il Festival d’Eritrea che si è svolto a Milano lo scorso 27-28 giugno è stata l’occasione per intervistare Filippo Bovo, autore di Eritrea, Avanguardia di un’Africa nuova, storia, attualità e avvenire di una giovane nazione, libro appena pubblicato per le Edizioni Anteo.

Un libro dedicato all’Eritrea perché, come spieghi nell’introduzione, di questo paese si parla troppo poco. È vero ma oltre alla “quantità”, in che modo si dovrebbe parlare di Eritrea?

È una bella domanda.
Se ne parla poco e male se guardiamo la panoramica, non solo dei media italiani ma anche occidentali. Uno dei motivi è che l’Eritrea rappresenta un brutto esempio per l’Africa.  È  un paese che vuole camminare con le proprie gambe e non si vuole che il resto dell’Africa segua quest’esempio.
Si preferisce l’idea di un’Africa assistita che dipenda dai nostri istituti finanziari, dai nostri progetti infrastrutturali, un modo per far profitti alle loro spalle. Probabilmente dà anche fastidio il ruolo che l’Eritrea ha tenuto nei confronti della crisi somala, ha dato fastidio il fatto che sia riuscita a resistere all’attacco etiopico del 1998-2000 e, in certo senso, a dimostrare, nei limiti delle sue possibilità, nella modestia dei suoi mezzi d’informazione, che quel conflitto non avveniva per colpa sua, ma era un’aggressione.
Sono queste le cose che hanno dato fastidio, oltre al modello che incarna.
Questa convinzione trova forza nel fatto che si parla molto poco della guerra di liberazione dell’Eritrea. Una guerra esemplare, senza l’aiuto delle grandi potenze.
Gli eritrei hanno voluto fare quasi tutto da soli, un esempio più unico che raro, questo è il motivo per cui non se ne vuole parlare.

Le guerre in Eritrea sono guerre dimenticate. Non hanno mai conquistato le prime pagine dei giornali, pochi gli inviati per seguirle, pochissime le testimonianze.   Come mai questa scelta dell’Occidente, in particolar modo dell’Italia?

Il problema è proprio l’assenza dell’Italia che, nei confronti dell’Eritrea, rappresenta la vecchia potenza coloniale. Gli altri paesi occidentali, ex potenze coloniali, hanno mantenuto un rapporto più vicino con quelle che erano le loro colonie, penso alla Francia o al Portogallo che si è riavvicinato all’Angola e al Mozambico, l’Italia invece si è comportata come se l’Eritrea non avesse mai avuto a che fare con lei.
Se ci fosse stato un ruolo della politica internazionale italiana più visibile, non solo per la guerra Etiopia-Eritrea, o ancor prima, durante la guerriglia di liberazione eritrea negli anni ‘60, ‘70 e ‘80, se ci fosse stata una presenza italiana nella crisi somala, probabilmente questi conflitti non sarebbero stati dimenticati.
L’Occidente invece è intervenuto, pensiamo all’intervento in Somalia che l’Eritrea non ha visto di buon occhio e se ne sono visti i risultati.

Negli anni ‘70 l’Etiopia di Menghistu, abbandonata dall’America, si avvicina all’URSS. Anche l’Italia appoggia l’Etiopia, una scelta che ha lasciato un segno?

Sì.  C’è un riflesso dei vecchi schemi politici e delle vecchie analisi che non sono state aggiornate perché, nel frattempo, non c’è stato interesse per capire il cambiamento.
Nel caso dell’Etiopia la funzione filo Menghistu del PCI ha preferito lasciare gli eritrei al proprio destino

Ci sono le dichiarazioni di Giancarlo Pajetta…

Vero. In seguito l’Etiopia è stata molto coccolata a livello internazionale, molto ambita, filoamericana.  L’Eritrea invece è stata messa in disparte.
Ha suscitato curiosità la sua indipendenza, poi però questa curiosità è svanita e nel giro di pochi mesi non se n’è parlato più.

Forse l’Occidente si aspettava una democrazia liberale a propria immagine e somiglianza, rimanendo delusa, nonostante la pacifica convivenza di nove etnie, diverse religioni e  l’assenza di terrorismo…

L’Eritrea ha sconfitto il terrorismo. La prima apparizione di Al Qaida quando l’Eritrea è diventata indipendente è stata subito bloccata. L’Eritrea ha denunciato il pericolo, per questo potrebbe dare consigli utili in materia di anti terrorismo.  É il caso più unico che raro di un paese che ha identificato il terrorismo subito, sul nascere.

Invece è stata accusata di aiutare Al Shabaab…

Si è detto che l’Eritrea, in Somalia, stesse giocando sporco in funzione antietiopica, però non è venuto fuori nulla, anzi sono venuti fuori tanti documenti che si commentano da soli, smentiti dalle fonti eritree, rimasti soloin ambito ONU, ottenendo però ascolto presso il giornalismo occidentale. Il comune cittadino non conosce queste cose, non se ne interessa, sia perché non si parla mai di Eritrea sia perché non le ritiene cose credibili.

Secondo te come mai i media italiani sono schierati contro l’Eritrea?

Sì, stampa e televisione non usano mezze parole per condannare l’Eritrea.
Soprattutto c’è la strumentalizzazione della “questione immigrazione” e del ruolo del paese. All’Eritrea si danno colpe che non ha, definendola “lager a cielo aperto” dal quale tutti vogliono fuggire, un posto dove vige una dittatura feroce.
Questa chiave di lettura per una persone che non sa niente d’Eritrea può apparire credibile, non avendo dati per contrastarla, quindi in tv può passare questo messaggio sbagliato. La verità l’abbiamo sotto gli occhi, la vediamo nelle occasioni delle feste, studiando la storia eritrea. Questo è il punto.



Cosa si aspetta l’Eritrea dall’Italia e cosa pensa l’Italia dell’Eritrea?

L’Eritrea si aspetta dall’Italia maggior considerazione e comprensione, non in termini di aiuti economici, vuole invece che l’Italia onori vecchi rapporti e  vecchi legami,  non sempre positivi ma nati con la storia comune. L’Eritrea si aspetta che l’Italia abbia un ruolo di pacificazione nel Corno d’Africa, spendendo due parole presso gli alleati per far capire cosa accade in un paese che non è brutto, sporco e cattivo,  come si dice in giro. Basterebbe questo, un’iniziativa a costo zero.
L’Italia da parte sua ha dell’Eritrea una percezione ondivaga.  Ci sono politici che hanno capito che l’Eritrea non è come la si dipinge, però sono soprattutto gli imprenditori a essere più attenti nei confronti dell’Eritrea.
Loro sono quelli che potrebbero cambiarne il destino, innestando un circuito economico tra Italia ed Eritrea, in alcuni casi già iniziato. Noi però dobbiamo capire che l’Eritrea può darci lezioni di vario genere, sul senso della famiglia, per esempio.
Noi abbandoniamo gli anziani con la badante o in casa di riposo e i bambini davanti ai videogiochi. In Eritrea questo sarebbe impensabile perché l’anziano è il custode della memoria e il bambino ne rappresenta il futuro.
Un’altra cosa che l’Eritrea ci può insegnare è il rispetto delle risorse idriche.
Siamo un paese che ha un acquedotto che per metà perde acqua per strada, un paese che ha abbandonato l’agricoltura.
Un tempo eravamo autosufficienti, ora non lo siamo più, importiamo il grano di cui abbiamo bisogno.
L’Eritrea sta facendo il percorso inverso, insegnandoci che è importante camminare con le proprie gambe. È un paese che può insegnare il rispetto per la storia.
Le loro vecchie ferrovie hanno ripreso a funzionare, mentre noi con le nostre ferrovie, tolte le frecce, siamo messi malissimo.
Anche la donna in Eritrea è molto importante.
In Italia non dico non lo sia, però anche donne affermate non hanno solidarietà, al contrario, sono viste con invidia e spirito di competizione.
Questo in Eritrea non avviene perché c’è una società molto unita e la donna è vista con rispetto.

Prima accennavi all’atteggiamento degli imprenditori, però quando un giornale finanziario attacca violentemente il paese non interrompe, con un titolo, i molti progressi fatti?

La mia sensazione è che si voglia scongiurare un cambiamento di idee.

Mettendosi sempre dalla parte del paese grande, l’Etiopia, contro il paese piccolo, l’Eritrea?

L’Eritrea è un esempio di caparbietà, un paese che, con le proprie risorse, ha fatto molto.

È grazie alla caparbietà che ha raggiunto molti degli gli Obiettivi del Millennio?

Sì. Li sta raggiungendo nel silenzio di tutti. Ormai neppure questi successi fanno notizia. Dovremmo riflettere su questo.

In appendice, tra gli altri rapporti citati, c’è l’ultimo della Commissione sui Diritti Umani, un rapporto scritto senza aver visitato il paese, come mai secondo te?

Questo è il bello. I vari Gruppi di Monitoraggio sulla Somalia, sull’Eritrea, (SEMG) commissioni o contro commissioni, in Eritrea o non ci vanno o fanno viaggi banali, comportandosi poi con grande ipocrisia, come i fatti che stiamo vedendo confermano.
Però c’è una motivazione; si attacca l’Eritrea sui diritti umani perché questo è un buon modo per scongiurare un suo avvicinamento all’Occidente, all’Europa. Diventa difficile per un politico, anche coraggioso, che voglia avvicinare il proprio paese o partito all’Eritrea, spiegare che le cose non sono vere quando tutti gli altri lo affermano.
Se lo fa viene lapidato.
Quindi questa campagna sui diritti umani, che non è diversa dalle campagne fatte contro altri paesi ha più o meno la stessa logica, ha il suo perché. E ha un peso anche sugli imprenditori come dicevamo prima.



Questo è il motivo per cui la stampa non ha riportato la notizia dei moltissimi eritrei che sono andati a Ginevra per manifestare contro il rapporto sui diritti umani?

Infatti è clamoroso. I telegiornali, che parlano anche di gossip, non hanno detto una parola sulla manifestazione di Ginevra.

Potremmo chiederci se chi manifesta in piazza contro l’accusa di violare i diritti umani e chi annega nel Mediterraneo per cercare un lavoro in Europa siano figli dello stesso paese?

Questa considerazione mi ricorda il discorso della Siria. I siriani che vengono in Italia, sono sempre siriani? Il problema è che siccome si è delegittimato il governo dell’Eritrea, come anche quello della Siria per rimanere nel paragone, allora chi vuole venire  in Occidente per chiedere asilo politico è meglio dica che è siriano anziché libanese perché in questo modo non  sarà rimandato indietro. Questo vale anche per un sudanese e un somalo o un etiopico. A loro conviene dire di essere eritrei per ricevere asilo.
Questo non vuol dire che non ci siano anche eritrei.

Per un migrante economico che arriva dal sud del mondo, sperando di ricevere asilo, la via è dichiararsi rifugiato politico, soprattutto se arriva da un paese dove non c’è guerra, calamità naturali e dove, formalmente, c’è una democrazia con elezioni…

Sì questo è un ”trucco” noto.

E l’Europa s’interroga: fermarli prima o farli arrivare?

Certo. Mettiamoci dentro anche le ambasciate occidentali che non danni i visti e le illusioni che l’Occidente crea. Che la gente abbandoni il paese è anche una strategia perché il paese perda risorse umane. Vedo molti ragazzi africani, senegalesi, persone che spesso hanno studiato, che se potessero vivere nel loro paese farebbero molte cose, che vengono qui per raccogliere pomodori o vendere accendini, una cosa umiliante.
Tutto il loro potenziale è sprecato, non è valorizzato. L’Occidente così si fa una riserva di manovali a bassissimo costo, per abbassare il costo dei lavoratori locali. S’innesca una lotta tra poveri. Un modo per fermare lo sviluppo di un paese è anche quello di privarlo di risorse.

Un accenno di biografia: come mai l’interesse per politica e cultura extraeuropea, in particolare modo quella africana?

Una bella domanda. Ho sempre avuto curiosità di questo tipo che ho portato avanti. Ho fatto vari lavori, poi sono tornato a questo, che è quello che so fare.

Potendo, fare la cosa che si sa fare e che piace è la miglior scelta, consigliabile…

Per l’Eritrea l’interesse è nato per le notizie che sentivo e che non mi convincevano, poi avvicinandomi alla realtà del paese ho scoperto cose di cui non si parlava.
Tutto grazie a un signore che ho incontrato nella sede di un piccolo partito quando ancora facevo politica. Questo signore eritreo, che era stato aiutato come molti altri dal vecchio SDI, mi raccontò del suo paese. Quella è stata la molla che mi ha portato all’interesse e al libro.

Ultima domanda: viaggi in Africa?

Mi piacerebbe tanto, è una cosa che ancora manca.

Bene, allora bisognerà cominciare dall’Eritrea…

Marilena Dolce













http://www.opinione-pubblica.com/2015/07/03/eritrea-avanguardia-di-unafrica-nuova-intervista-a-filippo-bovo/

sabato 18 luglio 2015

Mohamed Hassan ci parla di Ahmadinejad.



Questa breve intervista allo studioso marxista Mohamed Hassan è apparsa sul blog Investig'Action del giornalista belga Michel Collon, l'8 ottobre del 2009.

Intervista: Grégoire Lalieue e Michel Collon "Gli avvenimenti mondiali non si presentano sempre come vorremmo"

La settimana scorsa, situando gli avvenimenti iraniani nel loro contesto storico e mettendo in evidenza gli interessi nascosti dai nostri grandi media, Mohamed Hassan vi ha fornito le chiavi per comprendere meglio la posta in gioco: la sovranità nazionale di questo paese nei confronti dell'imperialismo occidentale (1).
Sono stati molti i commenti positivi a questa intervista, che ha avuto riscontro in tutto il mondo.
Ciononostante, la Repubblica islamica e il suo presidente rimangono dei soggetti di discussione molto controversi e alcuni lettori hanno interrogato Mohamed Hassan: "Criticare Ahmadinejad significa schierarsi dal lato dell'imperialismo?"; "Per me, la sola posizione valida è quella di sostenere nella loro lotta i movimenti progressisti"; "Giustificate l'oppressione?"; "Citate Chomsky, ma lui stesso ha sostenuto il movimento di opposizione dopo le elezioni".
Ringraziamo i nostri lettori per il loro contributo ad un'informazione di qualità.
Ecco le risposte di Mohamed Hassan in questa intervista "a posteri".

Criticare Ahmadinejad significa schierarsi dal lato dell'imperialismo?
È un'interpretazione di ciò che ho detto. Le critiche sono benvenute ed autorizzate. Laddove non ci sono contraddizioni, non c'è vita. Ma bisogna saper distinguere tra le contraddizioni in seno al popolo che vanno risolte in maniera democratica, e quelle antagoniste che coinvolgono la rivoluzione. In quanto antimperialista, sostengo la difesa della sovranità nazionale dell'Iran nei confronti dell'imperialismo. Evidentemente, l'Iran è uno Stato borghese rivestito con un abito islamico o teocratico. Ma non è il mio dovere risolvere i problemi degli iraniani con l'attuale regime. Questo spetta al popolo iraniano.

Essendo lei un marxista, perché non ha sostenuto il movimento di protesta post-elettorale?
Sosterrò sempre il settore più progressista della società iraniana che difenderà la sovranità e l'indipendenza del popolo iraniano nei confronti dell'imperialismo. Il fatto è che il movimento guidato da Musavi non fa parte di questa tendenza. I cosiddetti riformisti intrattengono da lungo tempo buone relazioni con gli imperialisti.
Dopo l'11 settembre, per esempio, è stato l'Iran, all'epoca guidato da Khatami, che ha mobilitato tutte le forze diplomatiche per raggruppare i più importanti gruppi in Afghanistan con l'obbiettivo di formare un governo. Mentre gli USA incontravano grandi difficoltà nel riuscirci, l'Iran di Khatami gli ha dato una mano formando il governo di Karzai. Ma questo ha aperto un importante dibattito in Iran sul fatto che il paese si facesse accerchiare dall'imperialismo statunitense. Questo costituisce parte del contesto in cui l'Iran è passato dai "riformisti" ad Ahmadinejad. Ed è per questo che nelle ultime elezioni gli USA hanno sostenuto Musavi contro quest'ultimo.
Il loro obbiettivo era quello di ristabilire delle relazioni "pragmatiche" con l'Iran.

Quali sarebbero state le conseguenze se il movimento di opposizione avesse avuto successo?
Prima di tutto, uno Stato sottomesso a una potenza straniera, sarebbe stato restaurato in Iran e le ricchezze del paese sarebbero state saccheggiate, come era il caso sotto lo Scià. Secondariamente, non bisogna dimenticare il fatto che due paesi vicini, l'Iraq e l'Afghanistan, sono in guerra. Se le forze contro-rivoluzionarie prendono il potere in Iran, gli USA avranno un vantaggio considerevole per controllare l'Asia, dominando così sia l'Iraq che l'Afghanistan. Saranno pure in grado di indebolire i loro avversari strategici - Russia, India e Cina - controllando le più importanti risorse della regione.
Inoltre, la resistenza palestinese verrà isolata e il governo siriano probabilmente rovesciato.

Ahmadinejad continua a non essere visto come un progressista. Non soprendente il fatto che lei lo sostenga?
Non sostengo Ahmadinejad in tutto quello che fa. Naturalmente, preferiamo che l'indipendenza iraniana sia sostenuta dal movimento più progressista possibile. Ma gli avvenimenti che accadono nel mondo non ci si presentano sempre come vorremmo. È dunque importante guardare, dietro al colore dell'imballaggio, quali sono le reali contraddizioni e quali i differenti aspetti del problema. Da un lato Ahmadinejad difende l'Iran dall'imperialismo: è quello che mi interessa ed è per questo che lo sostengo. Dall'altro, Ahmadinejad è un nazionalista alla testa del suo paese, ma non ho la pretesa di risolvere i problemi in seno alla società iraniana: questo spetta al popolo iraniano. 



(1) http://www.michelcollon.info/Que-doit-faire-Ahmadinejad-pour.html?lang=fr

Qualche lettura raccomandata da Mohamed Hassan:

- Simpson, Christopher, The Splendid Blond Beast : Money, Law, and Genocide in the Twentieth Century. New York, Grove Press, 1993. 399 pages. Reprinted in 1996 by Common Courage Press
- Kenneth M. Pollack, A path out of the Desert, A Grand Strategy for America in the Middle East, Random House, 2008
- Mahmood Madmani, Good Muslim, Bad Muslim, Three Leaves, 2005
- Gilad Atzmon, Qui est juif? (articolo online http://www.palestine-solidarite.org/analyses.Gilad_Atzmon.061009.htm )


Traduzione dal francese di Amedeo Sartorio, luglio 2015, originale: http://www.michelcollon.info/Ahmadinejad-Mohamed-Hassan-repond.html?lang=fr

lunedì 22 giugno 2015

Intervista a Mohamed Hassan: "Giù le mani dall'Eritrea!"



In questi tempi di forti flussi migratori sud-nord, si è tornati a parlare di Eritrea, definendola spesso come una sorta di lager a cielo aperto.
Essendo un estimatore della lotta di liberazione nazionale portata avanti con ardore dal popolo eritreo, e della conseguente rivoluzione di ispirazione socialista, vi presento un'interessante intervista che può aiutare a comprendere uno Stato ormai dipinto come l'inferno sulla terra, che viene attaccato proprio perché rappresenta, pur nelle sue contraddizioni, e in perenne stato di semi-guerra, un ottimo modello di sviluppo indipendente per tutti i paesi poveri d'Africa che si vogliono slacciare dalle briglie del neocolonialismo di Banca Mondiale e FMI.


Traduzione mia dell'intervista di Grégoire Lalieu a
Mohamed Hassan apparsa sul sito del giornalista belga Michel Collon.

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Il dramma umanitario dei migranti nel Mediterraneo ha portato al centro dell'attenzione mediatica un paese del Corno d'Africa relativamente sconosciuto. L'Eritrea sarebbe infatti il più grande "fornitore" di rifugiati. Le testimonianze di questi ultimi danno l'immagine di uno Stato terrificante dove regnano dittatura, tortura e carestia. Sono però pochi i giornalisti che si sono recati in Eritrea. Contro corrente alle poche informazioni che ci giungono su questo misterioso paese, Mohamed Hassan denuncia una campagna di demonizzazione. Specialista del Corno d'Africa, si interroga su ciò che viene detto, ma soprattutto su ciò che non viene detto sull'Eritrea, e si uscisce ai rappresentanti delle comunità eritree d'Europa riunite questo 22 giugno a Ginevra per lanciare un messaggio chiaro all'Occidente: "Giù le mani dall'Eritrea!". (#handsoffEritrea)


Dall'ultimo naufragio di migranti nel Mediterraneo, l'Eritrea è al centro dell'attenzione.
Lei che conosce bene questo paese e che lo visita di frequente, cosa pensa di ciò che viene scritto sull'Eritrea dalla stampa occidentale?


Bisogna prima di tutto interrogarsi sulla maniera con cui i media ci informano sul'Eritrea. Le testimonianze dei rifugiati sono numerose. Ma avete sentito quelli della diaspora che sostiene il governo eritreo? Avete potuto leggere le risposte del presidente, di un ministro o di un ambasciatore agli attacchi che sono diretti all'Eritrea? Immaginate di dover informare su Cuba, cosa varrebbe la vostra analisi se prendeste solamente le testimonianze dei cubani esiliati in Florida? Quando la stampa si comporta in modo unilaterale, senza dare la parola alle diverse parti, si tratta più di propaganza che di informazione.

Le testimonianze portate secondo lei non sono affidabili?

Evidentemente quelli che fuggono dall'Eritrea hanno il loro punto di vista. Ma noto delle lacune sistematiche nel ritratto che viene fatto di questo paese. Per esempio, si insiste sul fatto che nessuna elezione è stata organizzata dall'indipendenza del paese nel 1993. Ricordano pure le misure prese dal governo nel 2001, la chiusura dei media privati e l'arresto di oppositori politici. Ma non si dice nulla sul contesto. Potremmo dunque dedurre semplicemente che il presidente Isaias Afwerki è stato improvvisamente colpito da un eccesso di autoritarismo. Si dipinge così un ritratto di un tiranno lunatico. Lo si accusa addirittura di essere alcolizzato e di avere un capitale nascosto in Svizzera. Senza portare la benché minima prova, ovviamente. La realtà è diversa. Isaias Afwerki è un uomo lucido che non ha nessun problema con l'alcol. Quando si conosce un minimo l'Eritrea, è aberrante doversi sorbire tali voci. Il presidente è modesto. Se andate ad Asmara, potrete incrociarlo che passeggia in strada in ciabatte e senza guardie del corpo. Siamo distanti dall'immagine del tiranno megalomane che sfrutta il suo popolo per la ricchezza personale.

Lei ha parlato delle misure del 2001. Cosa è successo, che viene nascosto dai media?

Nel 2001, l'Eritrea usciva da una terribile guerra contro il suo vicino etiope. L'Eritrea era una vecchia colonia etiope, e ha portato avanti la più lunga lotta del continente africano per ottenere la sua indipendenza. Ma l'Etiopia non l'ha mai digerita e un conflitto è scoppiato trai due paesi nel 1998. Durante la guerra, certi media privati d'Eritrea, corrotti dall'Etiopia, hanno invitato a rovesciare il governo eritreo. Pure dei politici e degli ufficiali del'esercito hanno collaborato con il nemico, sperando di approfittare del conflitto per prendere il potere ad Asmara. Questa guerra ha così fatto cadere molte maschere in Eritrea, tanto più che nessuno credeva nella resistenza del governo eritreo. Ma alla fine l'invasione etiope è stata respinta, e il governo ha in seguito preso delle misure di sicurezza chiudendo quei media e imprigionando quelle persone che avevano collaborato con il nemico. Ricordiamoci che poco prima della guerra erano state convocate le elezioni. Una commissione elettorale era stata creata e stava preparando lo scrutinio proprio prima dell'invasione.

Sul piano democratico, la situazione non è dunque delle più rosee, certo. Ma quando si abborda questo problema, bisogna avere una visione globale che tenga conto del contesto. Quello che i media occidentali non fanno.

La guerra con l'Etiopia è terminata da quindici anni. Ma non ci sono ancora state elezioni. E l'informazione resta in mano allo Stato. Perché?

Prima di tutto, le tensioni tra i due paesi restano palpabili. Il governo etiope lancia sempre delle provocazioni belliche contro il suo vicino. È dunque alla luce di questo contesto teso che bisogna analizzare la questione delle limitazioni in Eritrea. Contrariamente a quello che si dice nella stampa, i giovani non sono arruolati con la forza e a vita nel servizio militare. Prima della guerra la durata del servizio era di diciotto mesi. È stata allungata durante la guerra, e poi riportata a diciotto dopo la fine del conflitto. L'Eritrea conta sei milioni di abitanti, circa la metà di quelli del Belgio, l'Etiopia conta invece novanta milioni di abitanti. Capirete facilmente che l'Eritrea non ha i mezzi né umani né materiali per costruire un grande esercito capace di tenere testa al suo vicino. Il governo non ha neppure la volontà di spenderci molto denaro. Per queste ragioni esiste il servizio nazionale che permette di fare appello ad un esercito di riserva in caso di conflitto.
Inoltre, non dimentichiamo che l'Eritrea si trova in una delle regioni più caotiche dell'Africa.

Su questa questione d'altronde, il governo ha una posizione molto interessante di cui non sentiamo mai parlare. Pensa che l'ingerenza delle potenze neocoloniali è la principale responsabile dei conflitti che attraversano il Corno d'Africa. E per lenire le tensioni, l'Eritrea propone di riunire tutti gli attori regionali attorno a un tavolo per dialogare pacificamente, senza l'interferenza di potenze straniere. Infine, il governo è molto franco sul tema: le elezioni e i media privati non sono la sua priorità, senza offesa alla visione etnocentrica occidentale che glorifica la scheda di voto a discapito di altre questioni più cruciali. Il governo eritreo si batte prima di tutto sul terreno dello sviluppo. Questo i media non lo dicono, e perdono così, secondo me, il punto essenziale. In effetti, dopo la sua indipendenza, l'Eritrea ha rifiutato gli aiuti di Banca Mondiale e FMI, così come i programmi che ne conseguono. "Gli eritrei sanno meglio di queste istituzioni internazionali quello che è meglio per l'Eritrea", aveva detto il presidente Afewerki.
Così facendo l'Eritrea è diventato il primo paese d'Africa a raggiungere gli obbiettivi del millenio.
Questo programma era stato messo a punto dalle Nazioni Unite nel 2000 per sradicare la fame, sviluppare la sanità e l'educazione, migliorare le condizioni di vita delle donne e dei fanciulli, ecc.
Si basava essenzialmente sull'aiuto dell'Occidente, ma è un po' caduto nel dimenticatoio con la crisi economica.
Quindi, ciò che ci mostra l'Eritrea, ed è eccezionae, è che un paese africano non ha bisogno dell'elemosina dell'Occidente per svilupparsi. Bisogna invece mettere fine al saccheggio organizzato da banca Mondiale e FMI e tutte quelle istituzioni che vogliono imporre il neoliberismo ai paesi del Sud.



A inizio giugno, l'Alto Commissariato per i Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto travolgente sull'Eritrea. Secondo questo rapporto, il governo eritreo sarebbe "responsabile di violazioni flagranti, sistematiche e generalizzate dei diritti dell'uomo". Il rapporto aggiunge che "queste violazioni potrebbero costituire dei crimini contro l'umanità".

Ancora una volta, il rapporto si basa unicamente su delle testimonianze di rifugiati, dato che il governo eritreo ha rifiutato l'accesso alla commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite. Un rapporto costituito a partire da sole testimonianze di richiedenti l'asilo non può essere affidabile. In effetti, per ottenere lo statuto di rifugiato politico, alcuni non esitano a mentire sulla propria nazionalità e a raccontare quello che il paese di accoglienza vuole sentire. Trai rifugiati eritrei, abbiamo così degli etiopi che si fanno passare per quello che non sono pur di ottenere il diritto all'asilo. Nel 2013, due parlamentari francesi hanno consegnato al ministro dell'Interno un rapporto che condanna la pericolosa similitudine tra chi aspira allo statuto di rifugiato politico, e i migranti economici.
Per questi ultimi, delle reti mafiose che gestiscono i canali di passaggio verso l'Europa, propongono false testimonianze e dossier di persecuzione preconfezionati. Dopodiché, se certi ispettori dell'ONU fanno coraggiosamente il loro lavoro anche dovessere deludere le grandi potenze, altri non esitano a sacrificare sull'altare degli interessi politici, i compiti che dovrebbero svolgere in maniera oggettiva.
Nel 2011 ad esempio, lo stesso Alto Commissariato per i Diritti dell'Uomo facilitava l'intervento della NATO denunciando la repressione in Libia a colpi di carri armati, elicotteri e aerei contro dei manifestanti pacifici. Oggi sappiamo che tali accuso erano completamente false. Ma miravano a fare pressione sul governo libico. La stessa cosa accade con 'Eritrea.

Chi vuole fare pressione all'Eritrea e perché?

Sul piano economico e politico, l'Eritrea è un sasso nelle scarpe del neocolonialismo occidentale.
L'Africa è un Eldorado per le multinazionali. È il continente più ricco...con le persone più povere! Ed ecco che un paese africano dichiara e prova con la pratica che l'Africa non può svilupparsi che slacciandosi dalla tutela occidentale. Il presidente Afwerki è molto chiaro sulla questione: "Cinquant'anni e dei miliardi di dollari d'aiuti internazionali postcoloniali hanno fatto molto poco per far uscire l'Africa dalla povertà cronica. Le società africane sono diventate delle società di zoppi". E aggiunge che l'Eritrea deve potersi tenere eretta sui suoi due piedi. Allora come tutti i leader africani che hanno tenuto questo genere di discorso contro il colonialismo, Isaias Afwerki è diventato un uomo da abbattere agli occhi dell'Occidente.

Il governo eritreo non facilita la campagna di demonizzazione rifiutandosi di accogliere la commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite?

Bisogna capire quella che può apparire come un'attitudine chiusa. Prima di tutto, l'Eritrea si porta dietro un pesante contenzioso con le Nazioni Unite. Il paese è stato colonizzato dagli italiani. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta di Mussolini, l'Eritrea avrebbe dovuto ricevere l'indipendenza, ma è stata annessa all'Etiopia contro la sua volontà. Il vecchio Segretario di Stato USA, John Foster Dulles, dichiarò all'epoca: "Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Ciononostante, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso, e le considerazioni per la sicurezza e la pace nel mondo, rendono necessario che questo paese venga attaccato al nostro alleato, l'Etiopia." Questa decisione ha avuto delle conseguenze catastrofiche per gli eritrei. Sono stati letteralmente colonizzati dall'Etiopia e hanno dovuto portare avanti una lotta terribile durata trent'anni, per ottenere la propria indipendenza.
In più, durante questa lotta, gli eritrei hanno affrontato un governo etiope sostenuto a turno dagli USA e dall'URSS. Durante la Guerra Fredda, si faceva generalmente parte di un blocco o dell'altro. Ma non vi ritrovavate contro entrambe le due superpotenze dell'epoca! Questo lascia evidentemente dei segni.
Ecco perché l'Eritrea oggi reputa di non avere nessuna responsabilità nei confronti dell'auto proclamata "comunità internazionale". Difende ferocemente la sua sovranità per portare a buon fine la sua Rivoluzione. Non è tutto perfetto, evidentemente, e gli eritrei sono i primi a riconoscerlo. Malgrado i risultati eccezionali per un paese del genere in fatto di sanità, educazione, o sicurezza alimentare, tutti vi diranno con molta umiltà che c'è ancora molto da fare. Ma affinché l'Eritrea continui a progredire, la miglior cosa da fare è non voler decidere al posto degli eritrei. È per questo che mi aggiungo alla piattaforma per interpellare le nazioni unite: "Giù le mani dall'Eritrea!". 

 

22.06.2015

Traduzione dal francese di Amedeo Sartorio, fonte originale:

http://michelcollon.info/Mohamed-Hassan-Pas-touche-a-l.html?lang=fr



mercoledì 8 aprile 2015

Ahmadinejad non è socialista, ma... Leggere i fatti dell'Iran capendo la posta in gioco. (2009)






Vi ripropongo un mio vecchio articolo (estate 2009), che considero tutt'ora attuale, e, sotto certi versi,  premonitore. Annuncio pure il ritrono politico di Ahmadinejad, che mi auguro possa riprendere il controllo del paese alla prossima tornata elettorale.
Buona lettura.













Da parecchi anni in tutto l’occidente è in atto una campagna di demonizzazione della Repubblica Islamica d'Iran. Questa campagna è cresciuta in modo esponenziale da quando il governo Bush ha etichettato il paese come parte fondante dell'«asse del male», e ha raggiunto il massimo di intensità dopo le recenti elezioni che hanno visto riconfermato Mahmoud Ahmadinejad alla testa del paese. Per settimane l’Iran ha sempre occupato le prime pagine di tutti i quotidiani che, sia a destra che a sinistra, hanno parlato di «brogli elettorali», di «governo illegittimo e dittatoriale», di «repressione estrema» nei confronti di manifestanti «pacifici e democratici», e hanno elogiato i cosiddetti riformisti poiché paladini di libertà, giustizia e moderazione. Ma è davvero questa la realtà iraniana? Come comunisti non si può non diffidare delle informazioni omologate dei media, ed è dunque necessario analizzare più a fondo ciò che sta succedendo in Iran.












Ahmadinejad, Moussavi e i brogli

L’Iran post-rivoluzionario non è uno stato socialista, è più simile a una teocrazia sciita nella quale l’omosessualità è reato e dove vengono applicate punizioni corporali. Sarebbe però falso e semplicistico ridurre il paese soltanto a questo e a qualche blogger finanziato dagli USA perseguito dalla legge. Le scorse elezioni hanno visto contrapposti l’ultraconservatore Ahmadinejad e il moderato Moussavi. Cosa si intende però con «ultraconservatore»? Non lo si usava anche per Reagan? E se questo ultraconservatore fosse più progressista in fatto di diritti sociali di Zapatero, Bertoli e Franceschini messi insieme? L’accusa di brogli è scaturita dal fatto che la vittoria è stata troppo schiacciante, e che a Teheran le manifestazioni a favore di Moussavi sono state parecchio frequentate. Alcuni brogli ci sono stati quasi sicuramente, basti pensare alla velocità con cui è stata proclamata la vittoria di Ahmadinejad o al voto a suo favore di certe regioni a lui tradizionalmente ostili. L'accusa è stata però sempre e fin dai primissimi giorni della contesa basata sulle opinioni di esperti (?) stranieri e su documenti messi in circolazione ad arte. Ad ammetterlo è anche Robert Fisk su "The Independent" del 18 giugno scorso. Che la maggioranza del paese abbia in realtà votato Moussavi è del tutto improbabile. Bisogna tenere conto dei seguenti fattori: 1) Teheran non è rappresentativa di tutto l’Iran e il resto del paese, dove raramente si addentrano i giornalisti occidentali, è più tradizionale e più povero. 2) I sondaggi lasciano il tempo che trovano: alcuni erano opera di «Think Thank» con sede a Washington, altri dell’organizzazione di Mehdi Hashemi, figlio del ricchissimo Rasfajani. 3) L’alta afflueza alle urne non è un segnale di facile vittoria dei moderati: infatti anche quattro anni fa le urne erano rimaste aperte qualche ora in più a causa delle lunghissime file.

L'Iran di Ahmadinejad

È dunque così strano che i due terzi di un paese a maggioranza contadina abbiano votato un uomo che nei suoi ultimi quattro anni di mandato ha garantito l’assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, aumentato lo stipendio dei docenti del 30% e le pensioni del 50%, ha dato dei bonus in denaro ai contadini colpiti dalla siccità, e si è impegnato a pagare le bollette delle famiglie senza reddito? E stiamo proprio parlando della «medievale repubblica teocratica» dove si può abortire fino al 45esimo giorno, dove esiste il divorzio, l’operazione per cambiare sesso è pagata dalla mutua, la prostituzione è legale e regolamentata, il numero dei laureati è in percentuale superiore a quelli italiani, le donne votano e, benché portino il velo (chiodo fisso dell’occidente), possono accedere a tutti i mestieri. Le proteste post-elettorali ci sono però state, e anche parecchio intense, come pure la repressione, fatto certamente da condannare. Bisogna però chiedersi se esiste un solo paese sulla terra che non avrebbe represso in questo modo chi cercava, con molotov e spranghe, di attaccare le forze dell’ordine per tentare di rovesciare il potere subito dopo elezioni tutto sommato democratiche e partecipate. Dinnanzi a un tale rischio, molto astratto qui in Svizzera, i nostri antisommossa non sarebbero più dolci degli ormai famosi motociclisti neri iraniani.

Una contro-rivoluzione colorata

Quello a cui abbiamo assistino in Iran è un palese tentativo di colpo di stato sostenuto, direttamente e indirettamente, volontariamente o involontariamente, da tutto l’occidente, e cammuffato da rivoluzione colorata. È questa la «nuova» strategia di Obama? Sembrerebbe che stia tenendo fede alla promessa: basta con le guerre alla Bush con piogge di bombe e invasioni, ma nuova intensificazione di interventi «nascosti» per destabilizzare i paesi avversari. Il copione che ci è stato proposto in Iran è quasi identico a quello di altri paesi, a partire dall’Ucraina e dalla sua rivoluzione arancione anti-russa. La tecnica dei colpi di stato filo-imperialisti, cammuffati da rivoluzioni colorate, segue ormai uno schema ben consolidato: 1) subito dopo le elezioni, un infinità di media sostengono la tesi secondo la quale sia stata l’opposizione a vincere e spingono la popolazione scontenta a scendere in piazza; 2) vengono lanciate parole d’ordine già ben premeditate e si da un’immagine pacifica, democratica e vittimistica dell’opposizione lanciando una vera guerra psicologica di disinformazione; 3) si chiede l’annullamento delle elezioni, si pretende che siano supervisionate da Bruxelles e Washington (UE+USA), e si continua ad imbottire di soldi l’opposizione (a cui già non mancano) così che possa lavorare in questa direzione. In Iran è però venuto a mancare il sostegno popolare, rendendo quasi vano il tentativo di colpo di stato. La rivoluzione verde è infatti stata sostenuta dalla borghesia cittadina, da studenti universitari troppo giovani per apprezzare i miglioramenti della rivoluzione islamica, e da una fetta delle donne, sempre di città, abbagliate dal consumismo occidentale. Non è dunque una lettura sbagliata quella secondo la quale Ahmadinejad rappresenta, sebbene non sia socialista, gli interessi del popolo, mentre Moussavi quelli della borghesia. In Iran è in atto una lotta di classe e i comunisti devono per forza schierarsi con chi più rappresenta il progresso e la giustizia sociale, e Chávez ha già capito da parecchio tempo a quale classe sociale Ahmadinejad sia più vicino. Persino il "Financial Times" del 15 luglio scorso lo ha capito sostenendo che "cambiamento, per i poveri, significa cibo e lavoro, non vestiti casual... la politica in Iran ha a che fare più con la lotta di classe che con la religione".





Quale «cambiamento»?

Si tratta di una lotta di classe che non avrà come esito il socialismo, perlomeno non nel breve periodo. Qui si tratta di capire come, in termine squisitamente marxisti, la «contraddizione principale» nel Medioriente è oggi la contesa fra imperialismo da un alto e sovranità nazionale dall'altro. La realtà geopolitica ed economica dell'Iran la rendono strategica per il controllo dell'area, ma la politica dell'attuale governo iraniano non favorisce l'egemonia di USA e Israele, non solo perché anti-imperialista ma perché aumenta i diritti sociali limitando le possibilità dell'economia globale di sfruttare il mercato nazionale. Chi oggi dice – e lo dicono purtroppo anche tanti a sinistra (ad esempio il partito iraniano Tudeh ex-filo-sovietico ma ormai del tutto estraneo alla situazione concreta dell'Iran – che le manifestazioni di piazza promuoveranno i diritti civili non si rende conto che i diritti civili saranno solo una chimera se non saranno salvaguardati i diritti sociali oggi esistenti con Ahmadinejad. Entrambe le fazioni politiche che si scontrano oggi in Iran sono integrate nel contesto della rivoluzione islamica: credere che Moussavi (già primo ministro ai tempi di Khomeini) difenda l'ipotesi di introdurre nel paese una democrazia liberale e laicizzare la società è pura fantasia! Moussavi è colui che ha criticato l'attuale governo per il suo programma sociale, ha auspicato la privatizzazione dell'industria petrolifera e una linea di maggiore apertura nei confronti di Washington. Il gruppo che sta dietro al leader dell'opposizione controlla infatti quasi tutto il commercio con l'occidente. Chiaramente la linea nazionalista e anti-imperialista di Ahmadinejad (che preferisce guardare a Russia, Cina e America latina) non favorisce gli interessi della borghesia compradora iraniana.

Come uscire dalla crisi iraniana?

Sono tre le ipotesi possibili: la prima è che l'opposizione perda e che il regime iraniano salvi lo status quo; la seconda è che l'opposizione vinca e che l'Iran si trasformi in un partner dell'imperialismo occidentale sulle basi di un corso economico neo-liberale; e la terza è che dal consolidarsi delle posizioni anti-imperialiste dell'Iran di Ahmadinejad si passi man mano a conquiste democratiche e sociali sempre maggiori, e questo magari con l'aiuto di paesi come il Venezuela e di organizzazioni come la Federazione Sindacale Mondiale.





Amedeo Sartorio